Feltri, vietato dire ‘clandestini’? “ecco come li chiamerò”

Feltri su Quirinale

Un articolo che aveva fatto discutere ancor prima di essere pubblicato. La mattina di lunedì 21 agosto Vittorio Feltri aveva twittato: “Per la prima volta in 60 anni di professione giornalistica sono stato censurato, ed è accaduto nel giornale che ho fondato, Libero. Non so perché. Nessuno mi ha dato spiegazioni. Suppongo perché ho definito invasori gli emigranti, esattamente come ha fatto il Giornale oggi”. In serata, l’aggiornamento: “Contrordine compagni. Non sono stato censurato, ma rinviato. Il mio pezzo sugli invasori esce domani, martedì. Evviva. Grazie Sallusti”.

E oggi, martedì 22 agosto, l’articolo è puntualmente in edicola. Ma cosa scrive il direttore editoriale del quotidiano? Si parte dalla Cassazione, che ha sanzionato l’uso della parola “clandestino” per definire un migrante. “Dobbiamo rassegnarci alla sconfitta. La guerra al vocabolario l’abbiamo persa, hanno vinto i bulli del politicamente corretto”, afferma Feltri.

Insomma, vietato dire clandestino

“Questo perché gli immigrati meritano rispetto. Va bene, io allora li definirò ‘invasori’ visto che arrivano in Italia a migliaia” con gli sbarchi a Lampedusa e non solo che si susseguono. Va detto che “aiutare chi si dibatte tra le onde è un dovere morale”, chiarisce il giornalista, ma “non è ammissibile che una folla di invasori senza arte né parte abbia il diritto di essere ospitata da noi”. Anche perché gli arrivi, sottolinea, sono tantissimi.

La sinistra invoca l’accoglienza senza limiti, senza pensara, ad esempio, ai problemi di casa nostra. Se è un obbligo salvare le persone in difficoltà in mare, argomenta Feltri, perché “dovremmo garantire pure ai nostri clochard, più di 50mila, una ospitalità tale da assicurare un tetto sostitutivo ai cartoni sui quali essi, loro malgrado, trascorrono la notte oltre che il giorno. Niente da fare, due pesi e due misure”. Come fare per frenare l'”invasione”? Per Feltri ci vorrebbe una massiccia campagna pubblicitaria nei Paesi da cui i migranti partono per avvertirli “che in Italia non c’è posto”.
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