Un anno vissuto… pericolosamente

Aldo Grandi

di Aldo Grandi – Ci viene da sorridere pensando che un importante dirigente di una altrettanto importante associazione locale, commentando un nostro recente articolo, se ne è uscito dandoci dello scemo. Ci siamo abituati, chi non ha il coraggio di dirci le cose in faccia né, tantomeno, di scriverle, preferisce offendere dimostrando, a livello culturale e non soltanto, uno spessore anche umano così misero da non meritare nemmeno risposta. In questa città, come, purtroppo, in quasi tutte, gli incapaci, i mediocri, gli eunuchi, gli ipocriti sono talmente tanti che, per contarli, non basterebbe una calcolatrice. Ma così è, se ci pare e, a noi, ci pare benissimo e senza problemi.

Un altro a cui, in questi frangenti, danno e dicono di tutto, è Andrea Colombini colpevole, evidentemente, di essere diventato, come è solito dire, un influencer suo malgrado facendo e dicendo tutto da solo. L’invidia e la gelosia sono brutte bestie e Colombini che raggiunge e supera le 80 mila visualizzazioni ad ogni video madeinprop o in altrettanti articoli e interviste pubblicati sulla Gazzetta di Lucca, è una realtà: volenti o nolenti.

Noi ricordiamo il 25 aprile 2020 quando, insieme ad altre sette persone eravamo in piazza del Giglio a manifestare, si fa per dire, la nostra contrarietà ai Dpcm della nostra classe politica digerente. La Digos ci fece comprendere che non era il caso. Alla luce dei risultati di questo anno di lotta al Covid, non solo era, ma è il caso di dire che ci hanno distrutto la vita e tutto il resto senza averci capito nulla. Noi non siamo sempre stati d’accordo con Andrea Colombini, ma riteniamo che, pur con tutti i suoi limiti e le sue esagerazioni, ha tutto il diritto e, scusateci, il dovere di spiegare come la pensa. Peccato solo che è più apprezzato all’estero, ossia fuori le mura lucchesi, che non in casa del resto, come ha dimostrato Giacomo Puccini, nessuno è profeta in patria, tantomeno a Lucca.

Torniamo a noi e, per favore, evitate le querele o gli esposti per apologia di reato.

Il sindaco di Viareggio Giorgio Del Ghingaro tanto ha bramato che, alla fine, è riuscito a far chiudere tutta la Versilia in zona rossa e a noi ha spiegato che l’ospedale Versilia, ormai, era al limite. Incredibile. Ci domandiamo se il virus avesse aspettato qualche anno prima di venirci a fare visita con la sanità che avrebbe trovato ulteriormente tagliata: altro che lockdown! Ci avrebbero confinato a tutti gli effetti.

Noi non siamo negazionisti perché è impossibile negare ciò che è avvenuto in questo anno solare appena trascorso da quel maledetto 9 marzo 2020. Cosa, poi, ci sarebbe da negare? I morti ci sono stati e i contagiati pure. E se anche si tratta, soprattutto, di persone in là con gli anni e con altrettante patologie, non per questo la loro vita valeva e contava meno di quella di tutti gli altri. Certo, la stragrande maggioranza aveva già vissuto, ma per i familiari conta l’esistenza in vita e la morte è, giustamente e purtroppo, la fine di tutto. Peccato che la vita non sia eterna e che, quindi, tecnologia o no, tutti, prima o poi, dobbiamo salutare questo mondo.

Ciò che stiamo per scrivere non vuole essere un articolo autoreferenziale, piuttosto il tentativo di spiegare come abbiamo cercato di sopravvivere, in tutti i sensi, a questa devastante pandemia che, per moltissimi, ha rappresentato l’inizio di qualcosa che ha condizionato e condiziona la loro vita fin nelle più intime espressioni al punto che, davvero, c’è da chiedersi cosa siamo realmente diventati e, soprattutto, che cosa intendiamo restare.

Noi siamo sempre stati dei bastian contrari, dei disobbedienti, dei ribelli, ma se fino ad una certa età poteva trattarsi di una conformazione o, per gli altri, deformazione caratteriale, col tempo questo modo di essere ha ricevuto alimento dalla consapevolezza che, inevitabilmente, se si vuole crescere e raggiungere una autonomia di pensiero e una autonomia di giudizio è inevitabile scontrarsi con la maggioranza delle persone che, per tutta una serie di motivi, preferisce fermarsi alla superficie delle cose.

Quando il Covid è arrivato nella nostra sconquassata penisola senza, ormai, più identità né confini geografici, ma non soltanto, non avevamo, da tempo, un sistema immunitario che perdeva olio in maniera anomala: lo hanno definito angioedema da deficit di C1 inibitore e per questo siamo entrati a far parte del più esclusivo, ma indesiderato dei club, quello dei malati affetti da patologie rarissime. Ci hanno consegnato il nostro tesserino che ci dà il diritto di accedere, senza attese, ad ogni pronto soccorso di ogni ospedale esistente – Covid o non Covid – e ci hanno spiegato che non possiamo guarire, ma possiamo imparare a convivere con questa disfunzione che, in alcuni casi e se non presa in tempo, può avere conseguenze gravi.

Non confessiamo questa nostra peculiarità per farci compiangere né compatire, ma solo perché quando è sopraggiunto il Coronavirus, noi non ci siamo preoccupati di informarci su quali potrebbero essere le conseguenze qualora dovessimo contrarlo. In sostanza, abbiamo vissuto e continuiamo a vivere esattamente come se non ci fosse. Non il virus ovviamente, ma la malattia.

Sin dalle prime settimane ci siamo subito resi conto, grazie anche all’ausilio di una professionista, la psicoterapeuta Manuela Giuliani più volte intervistata, che le conseguenze delle misure restrittive imposteci dal Cts (comitato tecnico scientifico) – in gioventù, nella capitale, il Cts era il centro turistico studentesco e aveva come scopo quello di favorire gli scambi culturali tra giovani e studenti di diverse nazioni promuovendo un modello di turismo responsabile e sostenibile: questo per dire come cambiano le sigle e in peggio – servivano, in particolare, a distruggere le nostre difese psicologiche o a provocare reazioni spesso inconsapevoli, ma in grado di compromettere la nostra salute mentale.

Noi, sin da subito, da sempre attenti all’aspetto psicologico dell’esistenza, abbiamo rifiutato di essere considerati alla stregua dei protagonisti del libro di George Orwell 1984. E abbiamo intravisto immediatamente i rischi e i pericoli – sproporzionati rispetto alla mortalità del virus – a cui saremmo andati incontro sia dal punto di vista sociale sia economico e affettivo.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Non soltanto niente sarà più come prima, ma moltissime persone non saranno più come prima. Noi non abbiamo mai rinunciato ad usare la logica e l’analisi nell’affrontare questo dramma epocale. Abbiamo, innanzitutto, osservato con attenzione i dati del ministero della Sanità. Poi ci siamo resi conto dell’effetto devastante dei mass media, impegnati 24 ore su 24 a trasmettere non fiducia e ottimismo, non calma e voglia di ripartire, bensì catastrofismo, negatività, paura. Infine ci siamo accorti che anche coloro che avrebbero dovuto e potuto essere al di sopra della mischia, al contrario, per comodità, opportunismo, timore o convinzione, avevano scelto di restare indietro e al di qua.

E abbiamo compreso, ancora una volta, di essere isolati, di essere soli, di trovarci su un’isola pressoché deserta circondata dalla uniformità di un pensiero che non ammetteva discrepanze né tollerava opposizione o diversità di opinione. Anzi. Come tutti i sistemi di potere, aveva la necessità di individuare un ipotetico e immaginario nemico da additare al pubblico ludibrio. Noi eravamo e saremmo stati gli untori, i negazionisti, i fascisti del Covid.

Incuranti di questa discriminazione e incuriositi dall’epidemia di ignoranza e rifiuto del diverso, siamo stati attenti a ciò che accadeva intorno a noi, nella quotidianità. Riflettendo con pacatezza e lucidità su ciò che dicevano fosse fondamentale per preservare la nostra salute e, soprattutto, debellare il nemico ossia il Covid-19.

Tuttavia, appellandoci alla razionalità, ci rendevamo conto di continuo che essa era stata sistematicamente ignorata e mandata, più volte, a puttane e perdonateci questa deviazione di francesismo. Le mascherine obbligatorie anche all’aperto? Ma come?, se anche i portavoce del Cts, in Tv, evitavano di indossarle spiegando che servivano solo a chi era a stretto contatto con i contagiati. E il metro e ottanta di distanza poi ridotto ad un metro?, ma come?, il virus conosce le misure e sa fermarsi al centimetro giusto? Niente abbracci e strette di mano?, ma come, il fascismo aveva eliminato proprio la stretta di mano perché, anche, antigienica preferendo il saluto romano e noi, adesso, stavamo facendo altrettanto? E vogliamo parlare della sanificazione imposta all’ingresso di ogni negozio? C’è gente che supera quotidianamente le 30 sanificazioni delle mani per, poi, scoprire la necessità di usare una crema protettiva per evitare che si screpoli la pelle.

Ma il fondo dell’abisso è stato toccato quando, ai ristoratori poveri disgraziati, sono state dettate le misure cui attenersi per poter continuare a lavorare nemmeno si trattasse di un’attività ludica e non, come invece è, il solo modo per vivere. Ci hanno fatto credere che se seduti ad un tavolo e intenti a parlare, ordinare o mangiare, il virus non avrebbe attecchito mentre, una volta in piedi, subito la mascherina altrimenti il pericolo di contagiarsi sarebbe diventata certezza.

Noi, sia per combattere la nostra disfunzione rarissima – poche centinaia di casi in Italia su 65 milioni di esseri umani dimoranti, ma, del resto, ci saremmo potuti accontentare di una patologia qualsiasi? – sia per, ingenuamente, ma fedeli ai dettami dei nostri nonni, abbiamo cominciato a fare tutto l’opposto di quello che ci veniva imposto. Salvo, per questione di rispetto e perché obbligati, indossare il mezzo burqa ossia la mascherina, nei luoghi chiusi.

Siamo stati, cioè e complice anche il nostro lavoro, il più possibile all’aperto con robuste iniezioni di vitamina d. Non abbiamo rinunciato a vedere amici e persone che ci trasmettessero emotività e fiducia nell’essere umano. Ogni giorno, mattina e pomeriggio, abbiamo ingurgitato 330 ml di spremuta di arancio e melograno fatta da noi. Visto che piscine e palestre erano chiuse – e non si capisce bene perché visto che lo sport e il movimento fanno bene al corpo e alla mente – abbiamo pensato di recarci, con mare calmo, almeno due o tre volte la settimana a Livorno o in Versilia per nuotare massimo 30 minuti senza muta in mare aperto e con l’acqua che varia tra i 12 e i 14 gradi.

In più, abbiamo scelto di frequentare, ogni tanto, per aiutarlo e farlo diventare emblema della resistenza di una intera categoria, il ristorante Tito a Firenze di Mohamed El Hawi. In più, ogni sabato sera, siamo stati ospiti del nostro Ciprian Gheorghita in arte Cip, fotografo della Gazzetta, con cui abbiamo condiviso questi 365 giorni.

Bene, siamo coscienti che avremmo potuto e potremmo prendere il Covid, tanto più che, sotto lo stesso tetto, vive la nostra mamma che ha, nientepopodimeno che 96 anni e che, quindi, se beccasse il virus, potrebbe lasciarci la pelle. Ma, lei stessa d’accordo, abbiamo deciso che vivere come vogliono farci vivere non è più vivere.

Sia ben chiaro: se fossimo convinti che questo virus uccide a contatto dell’aria, rende le persone invalide o ne provoca la morte ineluttabilmente come, ad esempio, la peste bubbonica o l’ebola, allora saremmo i primi, sinceramente, a chiuderci in casa e gettare via le chiavi. Ma così non è e a pagare le conseguenze di queste scellerate misure sono, soprattutto, i giovani e i bambini – oltre agli stessi anziani che, però, sono abbacinati dal terrore – ai quali il Covid fa, letteralmente, poco o nulla.

Allora, di fronte a tutto questo, ci siamo chiesti fino a che punto siamo disposti a pagare un prezzo per rinunciare a vivere e ci siamo trovati concordi nel ritenere che questo prezzo, per noi, non solo è diventato altissimo e insostenibile, ma che non siamo disposti a pagarlo per nessun motivo. Indotto o meno.

Così e chiudiamo, ci ritroviamo adesso ad avere un equilibrio mentale e fisico invidiabili se osserviamo la gente che cammina per strada. E crediamo sia giusto rispettare anche chi pensa che la fine del mondo sia sì in arrivo, ma non per colpa del Covid bensì di quelli che, per contrastarlo, stanno producendo effetti irreversibili.

Sbagliamo? Può darsi, ma la cosa più bella che ci è capitata in questi 365 giorni e più è avvenuta quindici giorni fa quando una persona a noi cara ci ha confessato che, ora, quando esce di casa, spesso, dimentica di indossare la mascherina. Ce lo ha rivelato con un senso di colpa accentuato, ma, credeteci, la sua salute psichica è migliorata parecchio rispetto allo scorso anno. Sarà un caso?

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Foto Ciprian Gheorghita

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