“Mafia universitaria” padre di Norman Zarcone scrive al ministro Bussetti

Al Ministro del Miur, Marco Bussetti
Egregio ministro Bussetti ,
dalle mie parti circola ancora un vecchio proverbio di natura popolare: “Domandare è lecito, rispondere è cortesia”. Ora capisco bene che non viviamo più nel territorio ormai sconosciuto della ‘cortesia’, ma su quello della liceità potremmo incontrarci, qualora lei si decidesse. Non dovrebbero esservi dubbi che si tratti del ‘posto migliore’. E fin quando agirò entro i confini del lecito non smetterò mai di “infastidirla” con le mie domande, con la mia richiesta di confronto.
Ha riflettuto su una riforma dell’università che contempli i dettati dell’articolo 416 bis del codice penale per i casi conclamati di baronaggio (magari d’intesa col dicastero della Giustizia)? Su quella che io chiamo “associazione mafiosa di stampo accademico”? La similitudine fra il rispetto che la gente porta a “zu’ Pinuzzu” o “zu’ Tano” e quella che i giovani portano ai professori universitari, calza eccome. Questo rispetto nasce dal potere associativo mafioso, dalla forza coercitiva che il gruppo esprime, dall’intimidazione, dall’omertà, dagli obiettivi comuni a salvaguardia degli scopi del nucleo associativo. Vi sono differenze culturali, è ovvio, i primi sparano sventagliate di kalashnikov (o ne sono mandanti), i secondi citano Orazio e Wittgenstein, però, mungi-mungi, stringi-stringi, l’obiettivo è quello di ottenere risultati per gli appartenenti alla propria famiglia e per se stessi. Un vincolo associativo che punta molto sull’intimidazione, la familiarità, la coesione territoriale, l’obbedienza e il silenzio omertoso su quanto avviene all’interno di quella inaffondabile struttura di potere che “mira ad inserirsi con metodi illeciti in attività di per sé lecite, per ottenere un vero e proprio controllo sul territorio”.
Tutte condizioni poste nell’articolo 416 bis del Codice penale: se vuole lo rileggiamo insieme.
Gli ingressi e le progressioni di carriera, ad esempio, a partire da un semplice dottorato (in special modo con borsa), sono gestiti dai baroni – rappresentazione tangibile del potere inviolabile, dell’autocrazia che si esprime con inganno e spocchia – i quali sono espressione di dipartimenti (la famiglia) e quantunque l’attività sia “di per sé lecita”, con tanto di concorso pubblico bandito e pubblicato, vi è un “metodo illecito” che determina e guida le carriere, gli ingressi, le nomine, le graduatorie. Il territorio è controllato in piena regola, ne va della sopravvivenza del nucleo familiare, si intimoriscono gli altri partecipanti poiché indesiderati e non “appartenenti” a quella “famiglia”. Il “vincolo associativo” è ineludibile e imprescindibile. E sono frequenti, inoltre, gli scambi fra “dipartimenti-famiglie”: io mi prendo uno di Pisa e Pisa si prende uno di Messina. Famiglia aiuta famiglia, tanto il pisano tornerà dopo poco tempo a Pisa e il messinese a Messina. L’escamotage si trova sempre, l’importante è salvaguardare il buon nome delle “famiglie”, quelle regole non scritte che però tutti conoscono.
Gli inquirenti in molti casi hanno parlato di sistema simile alla mafia. Badi bene, ministro: non è Claudio Zarcone a sparare a salve le sue sentenze visionarie, ottenebrate dal pur legittimo sospetto, dalla rabbia, dalla devastazione interiore. Sono gli stessi magistrati a paragonare il sistema delle baronie alla mafia: “In Italia esisteva una cupola di professori che decideva commissioni e vincitori dei concorsi della disciplina” (“Repubblica. it” – pagina web di Bari – 10 febbraio del 2014).
A poche ore dalla morte di Norman, ho parlato di “omicidio di Stato”. Si è nei fatti “assassinato” un ragazzo brillante: giornalista, musicista, filosofo, che d’estate – e questa è storia, non fantacalcio – faceva il bagnino in un circolo nautico per  apprendere l’etica del lavoro e della fatica fisica. Altro che “choosy”, “bamboccione” o “sfigato”.
Norman non era un depresso, tutt’altro. Il suo cervello al fulmicotone era sempre in ebollizione e  la depressione non sapeva proprio cosa fosse: la sua era una concezione allegra e briosa della vita. Gli amici lo chiamavano “Zuzzurellone” e così si è firmato nella lettera indirizzata ai suoi amici, scritta poche ore prima che mettesse in atto la sua drammatica decisione. Una decisione, comunque, maturata e metabolizzata nel tempo. Una dolorosa scelta filosofica oserei dire (purtroppo). Mio figlio nell’ultimo periodo era incazzato, questo è l’aggettivo giusto. Il suicidio di Norman scaturisce dalla rabbia, dall’impossibilità di poter cambiare le cose e il suo gesto va catalogato come altruistico, perché parrebbe che i morti non godano di benefici terreni. Mio figlio con le sue due lauree con lode, il dottorato senza borsa pressoché concluso (terzo e ultimo anno) e il tesserino di giornalista pubblicista in tasca, non si sentiva un laureato di serie B, è semmai dentro quel dottorato che si sentiva di serie B: emarginato, non considerato, isolato come una metastasi da estirpare. Quel senso di isolamento lo fece sentire di serie B a soli ventisette anni. È dentro quel dottorato che monta a dismisura la sua  rabbia.
Una valanga mi ha sepolto, di fatto. Ha sepolto la mia intera famiglia. Avevo tanti progetti su mio figlio, con mio figlio, con la mia famiglia, ormai distrutta. Progetti di una famiglia normale, con alti e bassi, ma in fondo normale. Norman non chiedeva niente di speciale, soltanto una possibilità alla pari degli altri. Gli è stata negata, lo creda, e  tutta la mia famiglia è diventata una sorta di palcoscenico del dolore. Continuo, martellante. Un palcoscenico di tristezza che con reazioni individuali diverse, ci proietta in avanti come maschere senza più un’identità collettiva, senza sguardi alla gioia, tutti imprigionati in un costante sogno surreale vissuto in stato di veglia. Non siamo ricchi, ma non abbiamo mai patito la fame, eppure  Norman adorava fare il bagnino d’estate per guadagnarsi qualche euro in più da spendere in libri, una pizza con la sua ragazza e poi quel che rimaneva lo versava in un libretto di risparmio postale: ancora oggi esiste quel libretto postale con i risparmi di mio figlio. Il Comune di Palermo gli ha intestato uno spazio urbano, la Rotonda Norman Zarcone e ha indetto in suo nome la “Giornata del Merito”, mentre l’Ordine dei Giornalisti (Norman, ripeto, era anche giornalista) ha intitolato due borse di studio in sua memoria; a lui sono stati dedicati libri, canzoni e tesi di laurea: basta cliccare su Google per avere contezza.
«… chi raggiunge lo status di docente universitario non immagina
neanche lontanamente che un’evoluzione politica possa avere un
effetto sulla sua carriera: si sente assolutamente intoccabile»
Michel Houellebecq
Ministro Bussetti, guardi che il silenzio non può pagare in eterno. Ho sempre evitato di buttarla sull’emotività e sulla lacrimuccia, mantenendo un atteggiamento critico e razionale malgrado l’argomento del nostro discutere (in vero, più un monologo da parte mia) contenga tutti gli elementi della suggestione emotiva, della storia strappalacrime. Provvederò subito, visto che le mie parole concrete non hanno scalfito il suo interesse.
Mio figlio, Signori della Corte, ministri, legislatori, magistrati, papi e re, non è stato un incidente
di percorso in questa vita terrena. Norman è stato ed è ancora il mio amore, l’amore mio, nato da un atto d’amore. Non poterlo più toccare, annusare il suo odore, vederlo leggere, udire la sua voce, è l’accelerazione della mia discesa agli Inferi. Il mio Inferno del quotidiano.
Pensare a ciò che gli sarà passato per la testa, qualche  secondo prima del “volo” (paura? pentimento? ricerca finale di Dio? o cos’altro?) mi satura di tanta, tale angoscia, da farmi desiderare la morte immediatamente.
Chissà quale sarà stato il suo ultimo pensiero, o per chi. E quale la sua ultima immagine visibile del mondo degli uomini: uno squarcio di cielo grigio, mentre i suoi teneri occhi si andavano chiudendo per sempre? Un lembo di duro selciato? Le gambe della guardia giurata che gli ha dato l’ultimo conforto? E cosa avrà udito? Le urla della gente accorsa? Il loro brusio agitato mentre qualcuno gridava, «chiamate un’autoambulanza»?
Oppure gli sarà passato tutto davanti, prima di spegnersi, senza suoni, colori, sensazioni? E la sua giovane vita, gli sarà passata davanti agli occhi, nella mente?
Il suo ultimo istante, come e in che modo sarà stato il suo ultimo istante (doloroso? impaurito? liberatorio?) prima che il tempo eterno della morte ponesse il suo sigillo ancestrale a quella giovane, incolpevole vita?
Avrà avuto la chiara consapevolezza finale di cosa fosse accaduto, stesse accadendo? Avrà desiderato di tornare indietro nella sua decisione ribelle, premendo un bottone ideale, sperando nell’intervento di una forza divina? Avrà chiamato col nome di Dio, quella forza divina? Lo avrà riconosciuto come Dio prima di attraversare quella linea tanto temuta dagli uomini?
O, al contrario, ribelle fino all’ultimo, deciso nella sua denuncia massima, ha accettato liberamente di entrare in quel sogno perpetuo, fatale, che noi chiamiamo morte? Norman era ancora vivo quando la guardia giurata gli diede l’ultimo conforto!
Ecco, Signori della Corte, Eminenze grigie della nostra politica, perché sono anch’io colpevole, perché vivo già all’Inferno. Perché non potrò mai rispondere a queste domande, perché potrò soltanto immaginare il suo ultimo respiro innocente, dalla mia dimensione colpevole. Condannatemi per non essere stato in grado di capire; di fermare un cammino verso la tenebra di quell’istante fatale precluso alla comprensione degli uomini. Ma ciò non toglie che io condanni voi, colpevoli di ignavia e silenzi istituzionali complici.
Leggo spesso su un social media, di amici che festeggiano i propri figli, la loro “vita”. Io non potrò mai festeggiare un cazzo, potrò solamente morire dannato. Non ho nemmeno la possibilità di poter scambiare la mia vita con quella di mio figlio: cazzo, grido ancora più forte!
Ora mi dica, ministro Bussetti: cosa intende fare?
Claudio Zarcone
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