Caro colonnello le scrivo, così mi distraggo un po’…

di Aldo Grandi

Ci sono momenti, nella vita di ognuno di noi, in cui le montagne non soltanto non sono russe nel senso che salgono e scendono, ma sono a senso unico e tutte, sistematicamente, in salita. Ci sono periodi, nelle nostre misere ed effimere esistenze, in cui anche una parola può essere, come scriveva e titolava Carlo Levi, una pietra, pesante e destinata a rimanere. Lo sappiamo bene noi che, giornalisti più o meno pretenziosi, con questo lavoro abbiamo a che fare da sempre.

Forse il colonnello dei carabinieri attuale comandante provinciale dell’Arma a Lucca non lo sa, ma quando l’Italia dichiarò guerra alla Francia, il 10 giugno 1940, l’ambasciatore Francois Poncet, al momento di essere ricevuto dal ministro degli Esteri dell’Italia fascista Galeazzo Ciano, appresa la notizia, amareggiato e sbalordito, rispose: «E’ un colpo di pugnale inferto a un uomo per terra. Vi ringrazio, conte, di usare un guanto di velluto».

Ecco, il 22 dicembre 2017, alla vigilia di un Natale che, per chi scrive, non è né mai potrà essere un giorno di letizia, il colonnello Giuseppe Arcidiacono non ha usato nemmeno un guanto di velluto per avvisarci, almeno prima di farlo, che saremmo stati denunciati, noi e la Gazzetta di Lucca, per l’articolo 290 del codice penale, ossia vilipendio delle forze armate. Un provvedimento di sequestro preventivo immediato ci è stato notificato dai carabinieri della compagnia di Castelnuovo Garfagnana che, con la loro straordinaria gentilezza e umanità, ci hanno accolto, il sottoscritto e la sua meraviglia, febbricitanti con 39.2, per consegnarci il provvedimento firmato dal pubblico ministero su richiesta del comando provinciale di Lucca.

Aldo Grandi, ossia l’autore di queste righe, ha avuto un suocero, Giuseppe Ricci, appuntato dei carabinieri, fratello di Domenico, l’autista di Aldo Moro, trucidato da Raffaele Fiore, brigatista rosso, a via Fani il 16 marzo 1978. Quando chi scrive ha letto il provvedimento di sequestro della sua pagina denominata “Coglioni in divisa” e destinata a raccogliere articoli e testimonianze a favore di carabinieri e poliziotti vilipesi, dileggiati, umiliati, massacrati dai mass media del Pensiero Unico dominante, è rimasto di sasso. Per anni, in casa, abbiamo respirato la tragedia di quel marzo 1978, per anni, il sottoscritto ha lavorato come cronista di nera a stretto contatto con le forze di polizia e senza alcuna forma di sciocco o anche intelligente servilismo si è guadagnato rispetto e fiducia.

Ebbene, ci voleva un comandante dell’Arma inviato a Lucca e presentato al sottoscritto previa telefonata del generale Salvatore Maiorana, per mandarlo sotto processo per una pagina manifestamente a favore delle forze dell’ordine e tutt’altro che offensiva nei loro confronti. Anzi. Certo, era una pagina che difendeva una divisa e quel coglioni non stava certo lì per ridicolizzarla o vilipenderla, ma per rafforzarne la provocazione derivante dalla coscienza e dalla consapevolezza che agenti e militari hanno, spesso, di veder sottovalutato e vanificato il loro lavoro.

E’ vero, caro colonnello Arcidiacono, lei mi aveva amichevolmente chiesto tre volte di togliere quel nome e altrettante io le avevo spiegato che si trattava di una provocazione che non aveva niente di offensivo e lei aveva anche convenuto su questo. Poi, improvvisamente, ecco arrivare la denuncia e il sequestro, senza nemmeno, ci perdoni, il granchio pardon il guanto di velluto che Galeazzo Ciano usò in quel lontano giugno di tragedia.

In questi giorni in cui la sofferenza, il dolore, l’amarezza, la sfiducia hanno assalito questo scribacchino di provincia fin quasi a fargli maledire il giorno in cui ha cominciato a scrivere, non sono venuti meno l’affetto, la stima, la vicinanza e l’amicizia di carabinieri, ufficiali e non solo, e poliziotti, dirigenti e non solo, che si sono offerti di venire a testimoniare al processo che sarà intentato contro Aldo Grandi per vilipendio delle forze armate.

Aldo Grandi, giornalista professionista dal 1992, collaboratore di varie testate tra cui La Nazione e Il Corriere della Sera, autore di libri e biografie per Einaudi, Baldini&Castoldi, Sperling&Kupfer, Rizzoli, Mursia e altri ancora, sarà al banco degli imputati con, in mano, per prima cosa, la pagina di quel 17 marzo 1978 in cui fu annunciata e descritta la strage di via Fani. Questo per un atto di onestà intellettuale che chi scrive credo sia lecito riconoscergli sia pure davanti al cadavere di un suocero che ormai non c’è più e che ha perso un fratello trucidato dai terroristi che volevano cambiare il mondo e non sono nemmeno riusciti a cambiare se stessi.

Vede caro colonnello, lei ha preso non un guanto, ma un granchio di velluto e ha denunciato per vilipendio dell’Arma uno dei pochi giornalisti che per i carabinieri ha un rispetto che va oltre la divisa e che raggiunge l’essenza stessa di un corpo che non ha bisogno di credere, di obbedire e di combattere, né che è solito all’ “usi, obbedir tacendo, e tacendo morir” ma che è stato capace di conservare dentro di sé la sua straordinaria umanità nel corso dei secoli.

Lei passa alla storia di Lucca per aver denunciato un giornalista sostenitore del lavoro delle forze di polizia, per vilipendio delle stesse quando lei sapeva benissimo che il nome della pagina era una provocazione all’inverso. Ma non importa. Sapremo difenderci dalle accuse e continueremo a difendere l’onore di Domenico Ricci e di tutti coloro che indossano la divisa dell’Arma che ha visto al suo vertice un uomo dello spessore del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, consapevoli e fieri di essere dalla parte giusta anche se non capiti da qualcuno.

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