Fiumi depredati, condannati bracconieri romeni. Ma l’ecocidio continua

di Antonio Amorosi

Un cancro devasta i nostri fiumi, nell’inerzia delle istituzioni nazionali: i bracconieri, professionisti dell’acqua dolce di notte, stanno facendo sparire tutto il patrimonio ittico di Emilia Romagna, Veneto e Lombardia. E il business non si ferma nonostante le inchieste giornalistiche (scrivemmo una delle prime nel 2015) e quelle giudiziarie.  La mattina del 26 febbraio scorso sei componenti di uno di questi gruppi, operativi nelle tre regioni e tutto composto da cittadini romeni, sono stati condannati dal tribunale di Mantova per alcuni episodi di pesca di frodo avvenuto nell’aprile 2014 ( per 8 quintali di pesce).

Accusati di distruzione di habitat sotto tutela ambientale, in questo caso impartita dal Parco del Mincio, e di violazione di tre ordinanze del sindaco relative al divieto di pesca per motivi di igiene, i 6 sono stati condannati a 16 mesi di reclusione e 445.000 euro di multa.

Nel febbraio 2014 le guardie del Parco del Mincio li avevano sorpresi sul fatto. Ci avevano rimesso bottino, reti e imbarcazioni. Ma come sempre accade in questo settore si riinizia da capo. Il guadagno nell’attività è così alto che i romeni erano tornati due volte a marzo e sono stati “beccati” di nuovo. E’ storia di normale amministrazione.

Anche se vi è stata una sentenza il quadro legislativo di settore resta inadeguato, considerando anche l’organizzazione dei gruppi che stanno dietro al business. I bracconieri poi devono almeno essere colti sul fatto. Una volta fuori dai fiumi, anche grazie a sistemi di sentinelle, bolle di accompagnamento ben falsificate e ad una rete di appoggi allargata, difficilmente vengono sanzionati per le loro azioni. E anche in quel caso si ricorre sovente a multe, con risultati che si possono immaginare visto che si tratta di cittadini residenti in Paesi esteri come la Romania.

Il 90 % del mercato del pesce romeno, principale approdo del pesce “rubato” dai fiumi italiani, è d’importazione ma da acque per lo più inquinate e ottenuto con pesche illegali. 

In un’inchiesta della tv romena Stirile Pro Tv un’insider che provava a capire la portata degli affari dei bracconieri operativi in Italia si è sentito rispondere da uno di loro: ”Se non torni a casa con 8000 euro in tasca in due mesi puoi sputarmi in faccia!”. Il mercato illegale muove quasi 2 milioni di euro annui e con sanzioni nulle se non limitate.

“Ma non è tossico questo pesce?”, chiedeva l’insider. “Come no!”, reagiva il bracconiere interessato unicamente al denaro che riusciva a racimolare dalla pesca di frodo.

Il pesce inquinato di acqua dolce finisce nei mercati locali romeni e mangiato dalle classi sociali più povere. Gli effetti, per la presenza nei tessuti di mercurio (è tossico), policlorobifenili e diossine (sono cancerogeni) e altre sostanza nocive alla salute, può procurare effetti devastanti sul quadro neurologico delle persone anche a distanza di anni.

Ma le bande, interessate solo al denaro, continuano ad operare ogni notte dragando i fiumi italiani delle tre regioni, devastandoli nella raccolta indifferenziata di ogni essere acquatico vivente e operando anche scaricando la corrente elettrica in acqua con le batterie dei furgoni.

La fauna ittica dei fiumi di Emilia Romagna, Veneto e Lombardia è diminuita del 30% in pochi anni, ha spiegato in un recente studio l’Università di Ferrara.

Il quadro resta incerto. Per un gruppo che viene condannato altri continuano ad operare. Nelle tre regioni sono nati gruppi di volontari come il Movimento Gruppo Siluro che aiutano le forze dell’ordine a intercettare le azioni di bracconaggio, sensibilizzano la popolazione sull’ecocidio che sta interessando i nostri fiumi e chiedono una modifica legislativa che possa rendere non sterile l’azione della giustizia. Sempre se non sarà troppo tardi

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