Ecofin UE, paradisi fiscali per Google e Facebook. Sanzioni per l’Italia

di Antonio Amorosi
Alla presentazione del bilancio italiano in Europa il coro dei Paesi UE è stato unanime: “L’Italia non può fare debito. Le regole valgono per tutti”. Si, vabbé, ma non proprio per tutti tutti.

Entro il prossimo 22 gennaio, Ecofin, il Consiglio di Economia e finanza europeo, formato dai Ministri delle finanze degli Stati membri, ratificherà le raccomandazioni UE all’Italia e la procedura di infrazione (già stigmatizzata dalla Commissione sul deficit previsto dal governo italiano al 2,4%) sarà operativa.

L’Ecofin ratifica quanto dicono i vari Paesi Ue ed è quasi certo che, se non ci saranno modifiche del governo italiano, si procederà alle sanzioni. Se non si trovasse un accordo (massimo entro 6 mesi) e una manovra correttiva, arriverà una multa, da 3,6 a 9 miliardi di euro. Il Consiglio Ue potrebbe anche chiedere alla Banca europea per gli investimenti (Bei) di interrompere i finanziamenti verso l’Italia.

Per la prima volta nella storia europea saranno emanate delle sanzioni contro uno Stato membro, anche se in molti casi altri Stati membri hanno sforato i limiti di deficit richiesti dalla Ue.

Ma l’Ecofin è lo stesso organismo che a dicembre dell’anno scorso annunciò la lista di tutti quei Paesi extra Ue “pericolosi”, non fiscalmente adeguati agli standard dell’Unione europea, decidendo aprioristicamente di escludere tutti gli Stati europei dalle black list. Perché c’entra? Perché il fisco è determinante nel definire le entrate e le capacità attrattive di un Paese. Una multinazionale che intendesse operare in Europa potrebbe decidere, se vincolata a pagare le tasse nei Paesi dove fa fatturato, di aprire sedi ovunque. Ma non è così.

Gli Stati inseriti da Ecofin nella black list all’inizio erano ben 17 (molti sono stati poi depennati e inseriti in liste grige e simili), riducendosi alla fine a 7: Samoa americane, Guam, Namibia, Palau, Samoa, Trinidad e Tobago e Isole Vergini americane.

I paradisi fiscali europei, Irlanda, Lussemburgo e Paesi Bassi, invece sono stati aprioristicamente esclusi da ogni indice. Da diverso tempo questi Stati hanno introdotto piccole modifiche giurisdizionali nelle proprie normative fiscali. L’operazione li fa apparire più trasparenti, diventando così meta delle multinazionali americane.

Per l’Ue è sempre meglio un paradiso fiscale come il Lussemburgo di Jean-Claude Juncker che un’oasi inaccessibile al fisco in Asia, nelle Americhe o in Africa!

La bassa tassazione dei paradisi fiscali europei (anche Singapore in Asia è considerata di pari livello attrattivo) nobilita i meccanismi elusivi.

La tendenza è per tutte le multinazionali simile: cercare di spostare le proprie sedi dai paradisi fiscali extra UE ai paradisi fiscali europei, al fine di evitari sanzioni future e sentirsi inattaccabili. E le sanzioni Ue aiutano.

Se nel triennio 2013-2015 Google e Facebook avessero pagato le tasse in Italia, come normali aziende che operano sul territorio, l’erario avrebbe incassato quasi un miliardo di euro. Ce lo spiega nel 2017 uno studio dell’associazione per la legalità e l’equità fiscale Lef. Le imposte perdute sul territorio ammontano, rispettivamente per Google e Facebook, a 370 milioni di euro e 549 milioni. Estendendo il calcolo all’Ue la somma dei mancati incassi fiscali arriva a 5,4 miliardi di euro. Nel 2016 Facebook, Apple, Amazon, Airbnb e Tripadvisor hanno complessivamente pagato in Italia le stesse imposte sul reddito della sola Piaggio.

L’Ue di recente ha multato Google per 4,3 miliardi di euro. Apple ha dovuto versare, sempre dopo sanzioni Ue, 14,3 miliardi di euro per una mega-multa. E stangate milionarie si sono affacciate anche per altre multinazionali.

Ma con l’operazione di Ecofin, anche se i fatturati si fanno con gli europei, è più facile scegliere l’Irlanda, il Lussembrugo o l’Olanda come sedi delle proprie multinazionali e non essere sfiorati da sanzioni.

L’Irlanda era e resta al top di questa speciale classifica dei paradisi fiscali, con una tassazione del 12.5% e il suo “Double Irish”, il sistema che consente di giocare sulle normative fiscale associate alle residenze. Le multinazionali possono abbattere o eludere le tasse sui profitti con una residenza in Irlanda (che come paradiso fiscale tassa poco), eliminando la possibilità che l’azione del fisco sull’azienda si ripeta negli Usa ma con le leggi statunitensi.

Facebook sta spostando sempre più sedi dalle isole Cayman all’Irlanda. Amazon dagli Usa all’Irlanda. E così Apple. Anche il colosso dell’abbigliamento Zara si sposta dalla Spagna all’Irlanda. 

Tutto nasce in Europa, in seguito dello scandalo “Luxleaks”, in Lussemburgo (di nuovo il Paese di Jean-Claude Juncker), un’inchiesta coordinata dal Consorzio internazionale del giornalismo investigativo (Icij) che rivela un’ingente lista di agevolazioni fiscali concesse segretamente, tra il 2002 e il 2010, dal governo del Lussemburgo alle grandi aziende multinazionali.

A quel punto l’Ue è corsa ai ripari dando mano libera a chi voleva sanzionare Google, Amazon, Apple, che continuavano a guadagnare miliardi pagando un monte risibile di tasse ma non violando alcuna legge. A dicembre il capolavoro: Ecofin fa una lista dei paradisi fiscali black list ed esclude aprioristicamente quelli UE con un favore ad Irlanda, Lussemburgo e Paesi Bassi.

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