L’Europa sta scendendo inesorabilmente nell’abisso della deflazione

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La folle corsa della Ue alla deflazione

30 giugno – L’ EUROPA E LA CORSA AL RIGORE Lentamente ma inesorabilmente l’Europa sta scendendo nell’abisso della deflazione competitiva, ripercorrendo un cammino abbandonato da sessant’anni e mirabilmente condannato dagli scritti di John Maynard Keynes. Posti di fronte alla necessità di riequilibrare i propri conti pubblici, i singoli governi fanno la sola cosa che, in isolamento possono fare: tagliano le spese e aumentano le tasse. In tal modo la domanda interna di ciascun paese diminuisce, o si espande lentamente, e si mette in moto un circolo vizioso per il quale a meno domanda corrisponde meno reddito, a meno reddito un minor gettito fiscale, e maggior deficit nei conti pubblici. La deflazione competitiva induce poi una stasi della domanda internazionale, e quindi un peggioramento dei conti con l’ estero, dato che le esportazioni scendono, e quindi ha luogo una nuova riduzione della domanda interna, del gettito fiscale, e un peggioramento dei conti pubblici.

LA FOLLE CORSA DELL’ EUROPA ALLA DEFLAZIONE: Nessuna soluzione nazionale è possibile per tirare fuori un paese dal circolo vizioso della deflazione competitiva appena descritto. Se infatti, come fece Mitterrand nel 1982-83, si tenta una reflazione della domanda interna questa, scontrandosi con la opposta politica seguita dai paesi vicini e concorrenti, determina in brevissimo tempo un forte squilibrio nei conti esteri del paese che reflaziona, una fuga di capitali, la caduta libera del cambio, e impone l’abbandono della politica stessa, lasciando in eredità al paese che l’ ha tentata una situazione interna ancor peggiore di quella di partenza.

Per il deteriorare veloce della situazione politica interna della Germania, il partito di governo della medesima è costretto a mostrare al proprio elettorato la propria assoluta dedizione alla difesa del valore del marco, costi quel che costi. Il liquefarsi del partito liberale e la forte caduta di consensi per i socialdemocratici, l’ affermarsi di verdi e neo-comunisti, ha cambiato rapidamente un equilibrio politico pluridecennale, e induce la classe politica tedesca ad usare toni e argomentazioni sconosciuti nel passato recente, evocando paure che esistono nell’ inconscio di ciascun tedesco, perché fanno parte della storia prebellica e bellica della Germania.

Allo stesso tempo, la baldanzosa politica di ricostruzione iniziata dal cancelliere Kohl nei lander dell’ Est si sta rivelando un pozzo senza fondo, perché la gran parte dei denari che spende sono destinati a mantenere i redditi della popolazione dell’ Est e solo una piccola parte serve a rinnovare le infrastrutture e a creare capacità industriale moderna. Anche l’ attività di costruzione edilizia sembra rallentare in quei territori, dopo un boom di qualche anno.

Lo spettro del 1873, l’ anno di crisi della prima riunificazione, è sempre più spesso evocato da quei tedeschi che conoscono ancora la propria storia nazionale. Le prospettive di sviluppo del reddito in Germania, cioè nel centro dell’ Europa, sono state radicalmente ridimensionate da parte dei maggiori centri di previsione economica tedeschi, anche perché da parte della Bundesbank non sembra volersi rinunciare ad un ruolo di protagonismo politico, di suprema funzione costituzionale, spesso di recente riaffermato con solennità quasi sacerdotale dal governatore Tietmeyer, che consiste nella difesa a tutti i costi del valore del marco all’ interno e all’ estero. I tedeschi tuttavia, che pure dalla deflazione dei primi anni Trenta derivarono la gran parte dei loro guai successivi, non sembrano rendersi conto che, in mancanza di una equivalente fonte di domanda per i propri prodotti, che sostituisca quella perduta per via delle politiche di deflazione che impongono al resto dell’ Europa praticandole essi stessi nel proprio paese, le loro esportazioni non potranno che declinare e perdere ulteriori quote di mercato, e indurre una ulteriore deflazione della domanda nel resto del continente e in Germania.

Poiché, per i motivi squisitamente politici cui ho accennato sopra, non ci si può aspettare dalla Germania un veloce cambiamento di rotta, l’ unica speranza era riposta dai paesi europei costretti alla deflazione competitiva in una rottura del blocco deflazionistico da parte di Chirac, che aveva condotto la propria campagna elettorale all’ insegna della lotta alla disoccupazione. Una decisa intenzione reflazionistica da parte francese avrebbe potuto essere concordata con gli altri paesi europei, e il rilancio della domanda che ne sarebbe risultato avrebbe controbilanciato l’ effetto della deflazione tedesca, salvando, per così dire, i tedeschi da se stessi, e riportando in Europa quello sviluppo del reddito nazionale necessario a continuare l’ opera di bonifica dei conti pubblici da qualche anno iniziata.

Le notizie e le immagini che giungono da Parigi ci mostrano invece che il voltafaccia di Chirac, indotto da chissà quali alchimie di politica estera e militare concordate con la Germania, e il rilancio della politica di deflazione in Francia, ha avuto l’ inevitabile effetto che può avere una politica deflattiva, o anche inflattiva, adottata solo a livello nazionale e senza la cooperazione dei paesi vicini e concorrenti. Che è quello di riuscire inutile o anche dannosa e di sottoporre il paese a inutili e pericolose perturbazioni sociali. Lo stesso può dirsi di qualsiasi politica deflattiva o reflattiva presa in isolamento da qualsiasi altro governo europeo. Essa finisce o in crisi sociale o in crisi di bilancia dei pagamenti e deve essere abbandonata. La stessa sorte attende qualsiasi politica che non coinvolga l’ intera Europa.

Bisogna che i governanti dei paesi europei si rendano conto che gli obiettivi di Maastricht non possono essere raggiunti in condizioni di deflazione dell’ intero continente. Bisogna che l’ economia europea esprima tassi di sviluppo di almeno il 3% o il 4% all’ anno, se si vuole che gli obiettivi di Maastricht in materia di deficit pubblici siano raggiunti e mantenuti stabilmente. La politica di deflazione in un paese europeo può ottenere gli stessi risultati solo se tutti gli altri paesi conducono allo stesso tempo la politica opposta, e fanno spazio alle esportazioni del paese stesso. Ricordava Joan Robinson nelle sue lezioni di Cambridge che se tutti volevano un avanzo di bilancia commerciale allo stesso tempo nessuno l’ avrebbe ottenuto. Fino a quando al centro del sistema di cambi fissi ci fu il dollaro, il cui governo sembrava dedicato ad una espansione senza fine, tutti gli altri paesi poterono riuscire ad avere surplus di esportazioni e ad accumulare i dollari coi quali gli Stati Uniti pagavano per il proprio deficit. Con la rottura di quel sistema si è persa anche la possibilità per tutti i paesi tranne gli Stati Uniti di avere surplus di esportazioni.

Le vicende degli anni Ottanta e Novanta hanno messo al centro del sistema due paesi, Germania e Giappone, che hanno entrambi industrie vitalmente dipendenti dalle esportazioni, e che quindi possono trasmettere al resto dell’ economia mondiale solo deflazione strutturale. Ho scritto, ormai dieci anni fa, che un sottosistema monetario internazionale come lo Sme era incapace di autoregolarsi proprio perché al proprio centro aveva un paese strutturalmente in surplus di esportazioni come la Germania, incapace di fomentare un ciclo di sviluppo europeo.

La riunificazione della Germania, e la politica keynesiana che ne è seguita in quel paese, hanno fatto per qualche anno sembrare che le cose fossero cambiate per sempre, che si fosse messo in moto un circolo virtuoso. Ben presto, tuttavia, la politica monetaria e fiscale tedesca è tornata alle antiche regole, e ne è immediatamente seguito l’ obbligo per le altre economie europee, di tornare alla deflazione competitiva.

Non sembra, guardandosi attorno, che alcuno dei governi europei si sia reso ancora conto della inanità delle vie nazionali al riequilibrio economico e della obbligatorietà della soluzione cooperativa. Forse sarebbe il caso che il governo italiano dedicasse il semestre di presidenza dell’ Unione Europea a cercare di insegnare agli altri governi questi principi primi di macroeconomia, la mancata comprensione dei quali ci porterà, inevitabilmente, al fallimento della Unione Monetaria e forse, addirittura al disfacimento della Unione Doganale.

Pare inverosimile ma l’articolo che avete appena letto è di Marcello De Cecco pubblicato l’11 dicembre …….scorso?

….No…..del 1995. Cos’è cambiato in vent’anni?

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