Milano, Sumaya: merito la presidenza della commissione Cultura, ma rinuncio

MILANO, 28 GIU – Dopo le polemiche politiche degli ultimi giorni la consigliera comunale del Partito democratico, Sumaya Abdel Qader, ha deciso di ritirare la sua disponibilità a ricoprire l’incarico di presidente della commissione Cultura del Comune di Milano, di cui è già vice presidente. La consigliera, la prima di fede islamica nel Consiglio comunale della città, ha comunicato la sua decisone in una nota.

Per non prestarmi alle inutili e sterili strumentalizzazioni di questi giorni emerse intorno al mio nome ho deciso di ritirare la mia disponibilità a ricoprire l’incarico di presidente della commissione cultura – ha spiegato -. A volte ci troviamo a dover scegliere tra ciò che è giusto e meritorio e ciò che è opportuno fare. E’ giusto e credo di meritare la presidenza della commissione Cultura, ma umilmente riconosco che non sia politicamente opportuno, oggi. Non voglio prestarmi a chi intende usare il mio impegno politico per dividere e rafforzare paure e pregiudizi“.

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Ma chi è Sumaya?

Il cugino della consigliera Pd era un affiliato di Al Qaeda

Gratta gratta, sotto i Fratelli Musulmani trovi Al Qaeda. Tutto all’ insaputa del Pd milanese, che conta fra i suoi consiglieri comunali più in vista una donna di origini palestinesi, Sumaya Abdel Qader, la quale il 19 giugno 2012 si prodigava su Facebook per ottenere la scarcerazione di un suo cugino, Samer Halmi Abdel Latif Al Barq.

Il grado di parentela che corre fra i due e le connessioni fra il detenuto e il terrorismo islamico sono stati rivelati ieri da un esponente di Milano Popolare, all’ opposizione a Palazzo Marino, Matteo Forte, particolarmente attivo nel rintracciare i legami fra gli imam «lombardi» e i foreign fighters.

Le armi biologiche – In pratica, dopo aver letto che cinque anni fa la Abdel Qader perorava la causa del «cugino» in prigione, Forte si informa per capire meglio chi sia costui e si imbatte nei documenti di una commissione del Senato degli Stati Uniti dai quali, pur fra i molti omissis, emerge che Al Barq, nato in Cisgiordania – attualmente territorio palestinese – nel 1974, era stato arrestato dagli americani in Pakistan nel 2003 perché sospettato di essere legato a doppio filo al terrorismo islamico. Attualmente, risulta che soggiorni in un carcere israeliano dal 2010. Se non lo liberano, nonostante i suoi scioperi della fame, gli appelli alla Corte Suprema di Gerusalemme e le campagne a suo favore, è per evitare che utilizzi le tecniche apprese durante la sua lunga militanza nella rete internazionale della jihad.

In realtà, la Cia non è mai riuscita ad appurare se Al Baqr avesse prodotto antrace, cioè la tossina batterica killer.
Lo avevano interrogato per tre mesi con le tecniche più convincenti ed efficaci che conoscevano. Avevano ottenuto una serie di conferme pari alle smentite. L’ unica confessione autentica riguardava una casa a Karachi, dove Al Qaeda progettava di impiantare un laboratorio per la produzione di armi biologiche. Era proprio lui, al Barq, ad aver ricevuto la somma di 1.000 dollari per prenderla in affitto. L’ incarico, aveva detto agli 007 americani, lo aveva ricevuto direttamente da Abu Ahmad Al Kuwaiti, il più stretto collaboratore di Osama Bin Laden.

Certo non era stato reclutato soltanto come agente immobiliare, ma semmai perché, secondo la ricostruzione desunta dai documenti processuali israeliani, nel 1997 si era trasferito in Pakistan per studiare microbiologia. L’ anno successivo era stato addestrato militarmente in Afghanistan e nel 2001 era stato reclutato direttamente da Ayman Al Zawahiri, allora numero due di Al Qaeda e aveva assunto il nome di battaglia di Abu Bakr al-Filistini.

Una volta spremuto ben bene, nel 2006, gli Stati Uniti lo avevano consegnato alla Giordania. Le autorità dello Stato ebraico a loro volta lo avevano arrestato nel 2010 mentre cercava di entrare clandestinamente in Israele dalla Giordania, attraverso il ponte di Allenby, dopo essere stato espulso anche dalle autorità di Amman. Il sospetto degli inquirenti è che stesse progettando un attentato su larga scala contro turisti israeliani in Giordania, nel quale intendeva coinvolgere altri terroristi, da addestrare alla produzione di tossine letali, con l’ obiettivo di attaccare all’ interno del territorio di Israele.

Anche alla luce dell’ esperienza acquisita dal cugino, si comprende meglio la sensibilità verso la causa palestinese di Sumaya Abdel Qader e della sua famiglia, dalla quale provengono numerosi membri della gerarchia dell’ Ucoii, l’ Unione delle Comunità e delle Organizzazioni Islamiche in Italia. Suo marito, Abdallah Kabakebji, co-fondatore della Gioventù Musulmana Italiana, benché sia nato in Siria, era salito alla riblata qualche mese fa perché era stato riesumato un suo auspicio di far ripartire il processo di pace in Medio Oriente con un «ctrl+alt+canc», mutuando il metodo più drastico utilizzato per riavviare i computer. A molti era apparso un invito a cancellare Israele dalla faccia della Terra e dall’ equivoco era nata una polemica particolarmente accesa con gli esponenti del Pd di origine ebraica.

Palestina anzitutto – Mettendo una toppa peggiore del buco, in occasione della manifestazione del 25 aprile scorso, la stessa Sumaya aveva contribuito ad alzare i toni dello scontro, dichiarando che “sfilerei con la brigata ebraica senza problemi se non confondesse il suo essere profondamente italiana con Israele che non rappresenta me e tanti italiani”. Nella stessa occasione, esprimeva anche qualche dubbio sulle origini di Israele: “Possiamo essere in disaccordo su come è nata”. Lei ora, dopo le ultime rivelazioni sul proprio clan familiare, parla di una campagna di “dossieraggio” nei suoi confronti. Che comunque è sempre meno letale di una spruzzata di antrace.

di Andrea Morigi

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