Tasse statali sulle vendite online, la guerra di Trump all’e-commerce

di Antonio Amorosi

Ci siamo. Domani la Corte Suprema degli Stati Uniti dovrà valutare se i singoli Stati possono tassare le vendite on line che avvengono sul proprio territorio. Una questione non di poco conto che potrebbe avere ripercussioni mondiali. Gli Stati Uniti sono, con i loro 325 milioni di abitanti e un e-commerce diffuso, i principali attori economici delle vendite on line; hanno una percentuale di utilizzatori internet dell’88% di cui il 67% acquista online. E i principali venditori del settore sono proprio statunitensi.

Partiamo dal dato che negli Stati Uniti le imposte statali variano da Stato a Stato. La Florida ad esempio non prevede tasse statali sul reddito delle persone fisiche. Pertanto la tassazione avverrà solo a livello federale, centrale cioè.

Ma torniamo ai venditori on line (come Ebay ad esempio). Facciamo un astratto esempio di scuola, per capire. Se produco penne ed ho sede nello Stato di Washington pagherò le mie principali tasse dove ho sede, cioè a Washington. Se vendo le mie penne on line in North Carolina, io produttore non dovrò pagare anche tasse in quello Stato. Continuerò a pagarle a Washington. E invece no, la questione sembra essere stata messa in discussione.

Un’analisi del governo centrale ha mostrato che se i singoli Stati degli Usa tassassero le vendite on line, solo nel 2017 otterrebbero nuove entrata per 13,7 miliardi di dollari.

In questo modo i produttori di penne nel North Carolina riuscirebbero ad essere di nuovo competitivi con quelli di Washington, vista la tassazione affibbiata sui prodotti di questi ultimi e sugli altri provenienti dall’esterno (o dall’estero).

La questione si è originata dalla decisione dello Stato del South Dakota che ha valutato di andare in giudizio contro un’azienda americana di e-commerce di Boston, nel Massachusetts, la Wayfair Inc. che vende beni per la casa.

La decisione della Corte Suprema potrebbe cancellare un precedente giurisprudenziale di 26 anni fa (nel 1992) nel quale si sosteneva che i rivenditori erano costretti a pagare tasse solo negli Stati in cui avevano una “presenza fisica”.

Donald Trump si è detto d’accordo, se la Corte decidesse di introdurre le tasse. E lo ha fatto attaccando Jeffrey Bezos, proprietario di Amazon e del Washington Post.

Bezos ha replicato che la sua azienda non è di fatto coinvolta nella partita: ha già una sede in quasi ogni Stato del Paese e paga le tasse su questa base. Più interessate al caso sarebbero invece imprese come Ebay con sede a San Jose in California.

Il Washington Post di domenica ha raccontato la vicenda con un dettagliato resoconto.

Il dibattito pubblico negli Usa resta acceso, tra chi sostiene che la decisione dovrebbe essere di tipo politico, spettando al governo e non “alla giustizia”. C’è poi chi valuta l’ipotesi praticabile solo per fatturati elevati e chi invece già adombra la possibile catastrofe per un intero settore commerciale. Alcune aziende statunitensi, che fanno solo vendita on line, hanno già dichiarato che un’operazione del genere si riverserebbe sui costi finali degli acquirenti, con il rischio di chiusura di molte attività che non sarebbero in grado di restare sul mercato.

L’effetto a catena che potrebbe procurare a livello mondiale una decisione di questo tipo, vista la mole di imprese e-commerce negli Stati Uniti, è facile a prevedersi, alimentando gli appetiti di tanti altri Stati che si sentono defraudati dalle vendite on line che passano sulle loro teste.

Ma in attesa della decisione della Corte Suprema una riflessione appare banale: questa scelta non è dichiaratamente protezionistica (protegge cioè le attività produttive nazionali mediante interventi economici statali anche ostacolano o impediscono la libera concorrenza di Stati esteri)? Con tutto ciò che ne consegue.

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