8 marzo – Cara rappresentante delle mie mogli

 di Enzo Ciaraffa

Cara rappresentante delle mie mogli,
spero tu possa leggere questa lettera che ho voluto dedicarti nella ricorrenza dell’8 marzo. Ma partiamo fin dall’inizio.
Incontrarti ed amarti furono tutt’uno. Ma fu facile. Come avrei potuto non essere rapito dai tuoi occhi a mandorla, dalla selva d’indocili capelli neri e da un sorriso che sembrava una giornata di primavera anche a gennaio? Come avrei potuto sottrarmi alla magia che stava prendendo la mia vita tra le sue mani per farne un giardino che ancora da’ frutti? Fu un amore grande da subito quello nostro ma di certo non tranquillo.

All’epoca non esistevano i cellulari e, tuttavia, furono tanti i nostri litigi telefonici, scandititi dal “clic” dei gettoni che, inesorabili, cadevano nell’apparecchio appeso al muro, ma la lontananza e gli inappagati desideri invece di dividerci facevano da mastice dei nostri sentimenti. Probabilmente era per tale ragione che piaceva a entrambi una canzone di Modugno che all’epoca andava per la maggiore: «… la lontananza sai è come il vento/spegne i fuochi piccoli/accende quelli grandi…».

Il nostro, però, non fu un fuoco grande, fu l’incendio di Roma! Infatti, dopo appena otto mesi di effervescente fidanzamento, ci sposammo, nonostante che in due mettessimo insieme a malapena quarantacinque anni di età, in barba a quelli che non assegnavano una lunga vita al nostro legame. Fu un matrimonio talmente veloce che prendemmo possesso della nostra nuova casa mentre il mobiliere stava ancora completando l’arredamento, e siccome mancava il tavolo della cucina, i primi giorni mangiammo sull’asse da stiro. Ricordi? Oddio, allora non eri proprio una gran cuoca ma anche i quotidiani spaghetti al burro e l’immancabile bistecca ai ferri sembravano cibo per gli dei perché ne eri tu l’artefice.

Eravamo giovani, con la testa piena di teorie e degli archetipi tipici dei primi anni Settanta, come, ad esempio, quello della “programmazione” dei figli. «Massì,…» – ci dicemmo abbastanza convinti – «… abbiamo tanto tempo; più avanti ci penseremo». Ma avevamo fatto i conti senza l’oste che, nel caso, era la nostra giovanissima età. Appena qualche mese dopo esserci sposati, nell’autunno del 1973, l’embargo petrolifero costrinse il nostro governo ad interdire la circolazione delle auto durante i fine settimana sicché passavamo le domeniche chiusi in casa pur se, a differenza della maggior parte degli italiani, a noi non dispiaceva … nove mesi dopo mi regalasti uno splendido figlio. Fu un parto difficile, molto doloroso per te, tant’è che finì col taglio cesareo ma il giorno dopo, mentre facevamo progetti per il bambino, ti scappò di dire «… speriamo che il prossimo sia una femmina».
Non ti ho mai detto quando mi commosse quell’affermazione: eri appena uscita da un travaglio lungo e doloroso ma non pensavi a te, anzi avevi rimosso la sofferenza e già anelavi a dar di nuovo la vita! Infatti, dopo undici mesi da quell’affermazione e con non poche preoccupazioni da parte mia e del ginecologo (inorridita, rifiutasti perfino di prenderlo in considerazione un aborto!), mi facesti dono anche di una bambina e, poi, di un’altra ancora. Allevare tre figli arrivati uno appresso all’altro, fu quasi come allevare tre gemelli con tutti i problemi che questo comportava.

Non di rado accadeva che, pronti, per uscire eravamo, invece, costretti a risalire in casa perché uno dei tre bambini l’aveva fatta nel pannolino e, pertanto, non era savio andare in giro portandosi appresso quel profumino. In verità poteva anche succedere che, sistemata la maleodorante “faccenda” e mentre riprendevamo la via del garage, la facesse anche l’altra e, così, si ricominciava tutto daccapo, ma tu non ti spazientivi, anzi sorridevi divertita, mentre nettavi il roseo culotto dei nostri cagoni. Ed io ridevo con te. Era quella la primavera della nostra vita in due. Ricordi?

Sembravi la Madonna del Gentileschi mentre allattavi e proprio in quei particolari momenti mi sorprendevo a domandarmi come sarebbe stato il “dopo”, quando il tempo avrebbe ingrigito la tua cascata di capelli e striato di rughe il tuo volto: avrei continuato ad amarti dopo una quarantina di anni di vita insieme? Ora che di anni insieme ne sono passati quarantacinque, credo di poter rispondere a quella domanda e voglio farlo in occasione dell’8 marzo, una festa che tu ed io abbiamo in uggia per i suoi aspetti folclorici che, col tempo, sono diventati l’unica ragione della ricorrenza.

Ora che i nostri tre ex “cagoni” sono usciti da casa per percorrere la loro strada, tu ed io siamo ritornati da dove eravamo partiti, al ritrovarci di nuovo in due e devo dirti che è più bello, più coinvolgente di quanto non lo fosse quarantacinque anni fa perché nei sentimenti che provavo per te allora vi era molta biochimica mentre adesso a prevalere è l’inaccettabilità della tua assenza… Credo di amarti anche più di quando eravamo giovani!

Non ti accorgi, ed esempio di come mi viene da sorridere sotto i baffi quando ti vedo, affaccendata a neutralizzare con un’infinità di creme e lozioni le rughe che, ormai, stringono d’assedio il contorno dei tuoi begli occhi, considerandola una fatica inutile perché amo anche quelle rughe che sono compagne delle mie da quasi mezzo secolo. Sì, ogni pieghetta, ogni capello bianco ha una storia che, poi, è la “nostra storia” e quant’anche diventasse candida come la neve, la tua testa, e completamente crespo il tuo viso, non ci farei neppure caso perché i miei occhi continuano a vederti come quel freddo pomeriggio del 21 gennaio 1973 in casa di amici. Figurati, ricordo ancora che in quell’occasione indossavi un golfino blu su di una gonna a righine rosse e calzavi scarpe con delle zeppe che, al confronto, quelle d’oggidì sembrano mocassini: ancora ti prendo in giro per quelle che definii «Le scarpe di nonna Papera». Credo che quelle scarpe stiano ancora conservate da qualche parte, anche se per la rabbia non le calzasti mai più da quel giorno. Ricordi?

Quelli insieme sono stati anni di felicità e, anzi, con te credo di aver realizzato il sogno proibito di molti uomini: avere più mogli come gli antichi califfi arabi. Quando rientravo a casa, infatti, non sapevo mai quale delle mie mogli mi avrebbe aperto la porta: quella carina che avevo lasciato in vestaglia al mattino o la moglie crucciata? Quella ammiccante che aveva già messo i bambini a dormire o la moglie stanca? Quella che al mattino mi aveva raddrizzato la cravatta prima che uscissi o la moglie arrabbiata per il mio ritardo? Ebbene, mi domando se l’8 marzo il più grande fascio di mimose del mondo (noi, però, preferiamo che le mimose restino sugli alberi) e perfino un costoso gioiello che peraltro non potrei permettermi, sarebbe la giusta cornice di una vita come quella che, nonostante gli imprevisti del destino, hai saputo costruire per me e per la nostra famiglia.

Mi domando perfino se è giusto ridurre ad un giorno soltanto la festa di donne come te e, tuttavia, voglio approfittare della ricorrenza per dirti – oggi convinto più che mai – la stessa cosa che, tra il serio e lo scherzoso, ti dissi quel pomeriggio di gennaio di quarantacinque anni fa: «Che ne diresti di viaggiare in mia compagnia per i prossimi cinquant’anni?».
E oggi, credimi, sono molto più convinto di allora.

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