Feltri risponde a Scalfari sul manifesto contro Calabresi: “Sarò teppista, ma so distinguere gli errori e i crimini”

di Vittorio Feltri

Sarò un teppista, come mi definisce Eugenio Scalfari, ma mi sono preso la soddisfazione di svegliare l’ elefante. Negli ultimi anni, nella sua omelia domenicale, aveva tenuto una corrispondenza solo con il Papa, con barriti flautati e grati, dato che il collega di prediche pare gli avesse garantito che non esiste il peccato. Mi sono permesso di sventolargliene uno sopra la proboscide, antico ma rinfrescato da recentissime cerimonie, e il pachiderma si è imbufalito (non so se si possa dire così, ma rende l’ idea).

Lascio perdere le villanie e le sgrammaticature, che scuso per l’ età e perché la questione non è personale, e vado al sodo. A cosa debbo l’ onore della barbuta reprimenda? A un articolo che qui, facendo crescere la barba anche a voi, sintetizzo. La cerimonia del 45° anniversario dell’ assassinio del commissario Luigi Calabresi ha rilanciato l’ idea di promuoverne la beatificazione. Tutti d’ accordo: è stato un martire. Lo sostengono anche quelli che gli hanno confezionato, mentre era vivo, la bara. Dal gregge di pecore (ma cachemire, beninteso) che isolò Calabresi e lo gettò in pasto al commando di Lotta Continua non si è levato non dico un grido, ma neanche un belato traducibile in mea culpa.

Siccome sono uno che fa nomi, li ho fatti. Nessun lavorio dietro le quinte, nessun verbale coperto da segreto: carta pubblica, stampata, a gran tiratura. Nel 1971 uscì non una sola volta ma per alcune settimane il manifesto dell’ Espresso firmato da 800 personaggi della crème di sinistra, e i cui capi intoccabili erano Umberto Eco ed Eugenio Scalfari. Sotto il titolo “Colpi di karatè” si indicava nel “commissario torturatore” il responsabile della morte di Giuseppe Pinelli, un anarchico in stato di fermo dopo la strage di Piazza Fontana.

Ho anche citato due signori che hanno avuto il coraggio di battersi il petto davanti a tutti per quel mandato morale di omicidio, Paolo Mieli e Carlo Ripa di Meana. E ho concluso che l’ Italia sarà un povero Paese finché non si avrà il coraggio della verità.
Di quegli 800 nessuno ha pagato alcun prezzo di carriera o di immagine.

Ci sia un gesto, un piccolo gesto, che costa pochissimo, ma vale moltissimo per dare magari persino un insegnamento alle giovani generazioni, ma anche a quelle anziane e ancora silenti. Forza Eugenio. Questo ho scritto più o meno, con altre parole per non farmi pagare due volte lo stesso articolo.

Dinanzi a questa richiesta scritta persino in italiano corrente, Scalfari ha emesso una gigantesca pomposa pernacchia. Ma la dirige contro se stesso. Mostra infatti di avere ottima memoria e conferma di essere stato allora e di essere oggi un uomo di potere, tale e quale. Egli ricostruisce il momento in cui stese quel manifesto anti-Calabresi insieme ai pezzi grossi della cultura italiana. Sostiene che era un suo dovere, ci era tenuto in quanto a quel tempo era deputato socialista. La piazza fremeva, i “ceti” (scrive così) si ribellavano. E loro diedero indirizzo all’ ira, quello di Calabresi. Ma non volevano fosse ammazzato, bensì semplicemente trasferito. Se è per questo ci riuscirono, fu spedito all’ altro mondo. L’ accusa dei colpi di karatè, quella di essere un torturatore?

Scalfari non lo dice, se l’ è scordato. Fu quasi un modo per proteggerlo, lascia capire, dalla giusta furia del proletariato.
Scalfari rivela che nel 2007, cioè 36 anni dopo, abbracciò la vedova Gemma Calabresi partecipando con Walter Veltroni alla intestazione di una strada di Roma al commissario. Alla signora «dissi che quella firma era stata un errore». Del resto il figlio Mario – ricorda – era corrispondente da New York della “sua” Repubblica, e oggi ne è il direttore. Insomma. Ha aspettato qualche decina d’ anni per confessare in privato un “errore”, un onesto errore; ma ha dato lavoro al figlio, il quale ha fatto carriera, che si vuole di più da lui? Grande è il potere della menzogna.

A questo punto mi consenta Scalfari di rubargli l’ arte delle citazioni specialmente francesi. Questa frase è di Joseph Fouché, ministro di polizia di Napoleone durante il primo impero, commentando la fucilazione del duca di Enghien: «È peggio di un crimine, è un errore». Per Scalfari, che vede la storia dal suo balcone, dove laggiù sullo squallido suolo le formichine uccidono e muoiono, è stato un errore. Per noi, che siamo gente volgare, siamo teppisti, è peggio il crimine. E quel manifesto fu un crimine.

 

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