Gas letali e tecnici specializzati: così la Turchia aiuta il Califfato

Aumentano le prove della connivenza tra Turchia e Stato islamico. Secondo quanto ha affermato in un’intervista a Russia Today il deputato del Partito Popolare Repubblicano turco Eren Erdem, il ramo siriano dell’Isis avrebbe ricevuto materiale per produrre il gas letale sarin dalla Turchia.

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Come è noto, il sarin fu usato anche negli attacchi di Ghouta e nei sobborghi di Damasco nel 2013, per i quali venne accusato Assad. Eppure il deputato turco spiega: “Per l’attacco coi gas di Ghouta sono state incolpate le truppe governative siriane. Ma c’è un’alta probabilità che quell’attacco sia stato compiuto con questi materiali transitati dalla Turchia. Con queste prove sappiamo chi ha usato il sarin e lo sa anche il nostro governo”.

In quel caso, forse, la Turchia cedette i gas letali per creare un casus belli e spingere l’Occidente a portare la guerra in Siria ed eliminare Assad. Si era davvero a un passo dal conflitto ma il presidente russo Vladimir Putin si prese l’onere di sistemare la faccenda e fece promettere ad Assad di eliminare le armi chimiche in suo possesso. In quell’occasione anche Papa Francesco si mobilitò in prima persona, organizzando una una grande veglia di preghiera in Vaticano.

Secondo il racconto fornito da Erdem, le prove della connivenza tra Isis e Turchia sarebbero contenute nel faldone 2013/120, l’indagine che venne poi archiviata. Spiega il deputato turco: “Si capisce che il materiale usato per le armi chimiche passa attraverso la Turchia e viene assemblato nei campi dell’Isis, che allora era conosciuto come Al Qaeda irachena. È tutto registrato. Ci sono intercettazioni che dicono ‘non ti preoccupare per la frontiera, ci pensiamo noi’ e si comprende chiaramente come vengono usati i burocrati”. Sempre secondo Erdem, i turchi coinvolti nel traffico sarebbero legati alla “Makina ve Kimya Endustrisi Kurumu”, la principale holding governativa di industrie per la Difesa, e che gli indizi porterebbero verso un intervento delle autorità per insabbiare il caso, con il possibile coinvolgimento del ministro della Giustizia Bekir Bozdag.

Le affermazioni del deputato turco vanno di pari passo con quelle rilasciate da Farès el-Chehabi, siriano sunnita e presidente della Camera di Commercio e Industria di Siria. Secondo quanto affermato dall’industriale, “Aleppo era la capitale economica della Siria e aveva più di 80mila fabbriche. Più di qualunque altra città del Medio Oriente. Le distruzioni e i saccheggi sono cominciati nel 2011, dal secondo mese di guerra. Quasi da subito, i ribelli ci hanno distribuito dei volantini in cui ordinavano la chiusura delle nostre aziende. In caso contrario le avrebbero incendiate. Hanno minacciato tutti. La gente si è subito spaventata e una ventina di miei amici industriali, membri della Camera di Commercio, sono stati assassinati perchè rifiutavano di chiudere le officine. Già nel 2011 i ribelli avevano incenerito più di cento manifatture”.

E chi li aiutava? Spiega Farès el-Chehabi: “Molti industriali mi chiamavano nel panico dicendo che dei ribelli erano nella loro fabbrica insieme a dei turchi. I tagliagole non sono capaci di distinguere tra le linee di produzione di una industria, non sanno come smontare i macchinari senza danneggiarli. È il motivo per cui i turchi erano presenti, per scegliere il bottino a portarlo a Gaziantep, ad Adana…Il bottino è partito per la Turchia con l’ovvia complicità della polizia turca. Non è possibile far passare con facilità macchinari che a volte hanno 20-30 metri di lunghezza. Hanno usato dei camion e li hanno fatti passare ai posti di confine, mica fra gli uliveti. Era tutto organizzato. Hanno svuotato Aleppo, le zone industriali sono un campo di rovine”.

Ma ciò che stupisce maggiormente è che, quelli che l’industriale pensava fossero semplici ribelli, si sono rivelati in realtà uomini dell’Isis: “Una delle mie fabbriche era a Cheik Najjar, la zona industriale più grande di Aleppo: producevamo olio d’oliva. I ribelli se ne sono impadroniti nel 2011 e mi hanno comunicato che non mi apparteneva più. Sono potuto tornare solo nel luglio 2014, quando l’area è stata liberata, e ho constatato i danni: hanno portato via tutto. Ho scoperto lì che lo stabilimento, che io credevo in mano all’Armata Libera Siriana, era in realtà il quartier generale dello Stato Islamico: sui muri erano dipinti gli stendardi di Daesh, avevano lasciato del vestiario dei jihadisti, e i loro volantini e fogli d’ordine. Siccome nella zona erano rimasti quasi 500 ragazzini che erano stati privati di istruzione per due anni, ho deciso di trasformare i locali della mia officina in scuola gratuita”.

A ciò si aggiungano anche le prove portate dalla Russia che dimostrano come la Turchia traffichi petrolio con lo Stato islamico. La Turchia può essere ancora un valido alleato nella lotta contro i terroristi dell’Isis?

Matteo Carnieletto  il Giornale

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