Premio Firenze: a Domenico Rosa segnalazione d’onore

domenico-rosaPrestigioso riconoscimento per il  giornalista Domenico Rosa che ha ricevuto la segnalazione d’onore alla XXXIII edizione del Premio Firenze per la sezione racconto inedito. Per il terzo anno consecutivo il collaboratore de ilsitodiFirenze.it ha ottenuto la menzione speciale dal Centro Culturale Firenze-Europa ‘Mario Conti’. Lo scritto di Domenico è intriso di noir, mito e tradizioni popolari. Una miscela che si fa leggere tutta di un fiato.

Quella delle storie è una passione che il nostro ‘vecchio’ cronista coltiva da diversi anni. Non a caso è in uscita nel periodo natalizio una sua raccolta di racconti per le Edizioni Tabula fati (Chieti), alcuni dei quali pubblicati anche dalla nostra testata.

LA RAGAZZA CHE NON POTEVA AMARE di Domenico Rosa

Troverai una persona che, come te, se ne infischia dei più e coltiva vecchi valori, purezza e tradizione, troverai chi, come te, conosce e riconosce ‘il polline di Dio’ nel mondo e nella vita, con cui condividerai pienamente quello che sei e che hai dentro, con cui potrai andare a spasso, in tutti i sensi, ovunque vorrai senza troppi mezzi a disposizione se non grande coraggio, un po’ di follia ed ecco che la parolina magica arriva: Amore!

Scrisse di corsa il biglietto e lo appoggiò accanto alla tazza di caffè appena fatto, l’ultima colazione preparata prima di dileguarsi per sempre, lontano dall’uomo con cui aveva vissuto gli ultimi cinque anni della sua vita. Mentre riempiva il borsone con le prime quattro cose capitate tra le mani ebbe una sensazione di sollievo, qualcosa che aveva sentito altre volte durante le sue fughe, qualcosa che somigliava tanto, almeno all’inizio, alla libertà.
Il taxi sotto casa era già lì ad attenderla, destinazione Bologna Centrale. Ore 7.20 intercity per Pescara e poi la corriera, la vecchia autolinea Di Fonzo che arrivava nel cuore del suo Abruzzo arcaico. La tana, il rifugio di sempre.

Cosimo si svegliò, come ogni mattina si fece il segno della croce e ringraziò il Signore per quel nuovo giorno. Non sapeva cosa lo attendesse. Una volta in cucina bevve il caffè distrattamente. Tutto era come le altre mattine. Pensò: “quella pazza di Anna sarà già andata a comprarsi uno dei suoi terribili vestiti vintage. E’ persino convinta di avere stile”. Dopo mezzora da quei pensieri pungenti si accorse del biglietto. Si stropicciò gli occhi ancora attaccati dal sonno e lesse. Non trattenne le lacrime. Aveva sperato tante volte che se ne andasse, magari al nord per una borsa di studio vinta oppure a Chieti dove aveva già collaborato con qualche professore della d’Annunzio. Non così però. Avvertiva il sapore amaro della sconfitta. Lui che con gli amici si vantava sempre di “è più bello vincere che fare l’amore” ora si trovava solo e perdente, abbandonato come un cane da quella ragazza che non aveva mai avuto il coraggio di lasciare.
Il cervello fu affollato da una miriade di pensieri. Aveva rimosso fino a quel momento il luogo del loro primo incontro. Poi il lampo, alla sua birreria preferita, la Public House in via Zamboni. Il luogo in cui il casanova dei poveri aveva una tradizione favorevole in fatto di conquiste femminili. Prendeva di tutto. “L’unica forma di democrazia che possiedo è nei riguardi delle donne”. Un ritornello che ripeteva sempre in quelle serate in cui il vino scorreva a fiumi e prima dell’alba si ritrovava avvinghiato a un mezza alcolizzata sovrappeso o peggio ancora.

L’orgoglio maschile in quel momento era ferito. Il chiodo fisso che batteva sempre più forte e sembrava gli spaccasse la tempia rifrullava continuamente: “farmi lasciare da lei è stato come perdere una mano di poker con quattro assi”. Non si dava pace e cominciò a girare per la casa come un matto. In una pagina della sua Moleskine ritrovò un biglietto: Mi dispiace per stamattina, è solo che io mi sento coinvolta in una cosa in cui non c’entro niente, a me non va di fare ‘penitenze’ ma tu in questo modo mi ci costringi. Volevo parlare stanotte ma tu hai preferito dormire e stamattina come se niente fosse hai ricominciato da zero. Io non ce la faccio, per me non fare l’amore è un sacrificio inutile, non ne capisco il senso, non ne sento il valore. Ti rispetto e ti aspetto, non è questo il punto, ma vorrei che anche tu rispettassi me e che mi capissi. Tutto qui. Ciao. Un bacio, Anna.

Le poche righe erano state scritte nel periodo della Quaresima quando Cosimo smetteva di bere, fumare, prendere caffè e fare l’amore. Insomma dopo dieci mesi di baccanale arrivavano due di convento. Chiamò la redazione del Carlino dicendo che quella mattina non sarebbe andato al lavoro. Accese una Camel senza filtro e aprì una lattina di birra. Per darsi coraggio mise su un vecchio disco di De André e sparò a tutto volume ‘Quello che non ho’.. “Quello che no ho è quel che non mi manca”.

La corriera stava attraversando il viadotto di Villa Santa Maria, la primavera alle porte, Anna era a pochi chilometri da casa. Costeggiò il fiume Sangro e respirò l’aria natia. Quante volte si era tuffata in quelle acque dolci insieme alle amiche di un tempo. In quel fiume che prende il nome dalla parola spagnola sangre che significa sangue. Le donne che si recavano a lavare i panni raccontavano che una volta l’anno il corso d’acqua, che nasce nel Parco Nazionale e sfocia nel mare Adriatico, si colora di rosso a causa dei morti ammazzati durante le battaglie avvenute nel corso dei secoli. L’ultima vita spezzata e finita nel Sangro era quella di un soldato tedesco durante la seconda guerra mondiale. L’uomo era stato ammazzato il 27 ottobre del 1943. Le circostante della morte erano note a tutti ma nessuno voleva più parlarne proprio perché quell’ennesimo sangue sparso aveva risvegliato la memoria. Ogni 27 ottobre infatti nel primo tratto in cui l’Abruzzo lascia il passo al Molise il fiume torna rosso.

Anna, tutto questo lo sa. Lei dopo due figli maschi era il dono più bello che suo padre potesse ricevere. Quel vecchio fascista di Mario l’aveva avuta proprio il 28 ottobre, anniversario della marcia su Roma. Era un segno. Questa figlia gli avrebbe dato soddisfazioni a non finire. La laurea in filosofia ottenuta con lode all’Università di Bologna era solo l’inizio, il genitore le avrebbe spianato la strada per farla diventare il primo sindaco donna del suo paesello. Mario non sapeva dell’oscurità interiore che la sua unica femmina si portava nel più profondo dell’animo.

Il giorno prima del suo settimo compleanno accadde l’evento che segnò la vita di Anna. La bimba si recò con la madre Rosaria a lavare i panni al fiume. Una volta l’anno anche con l’avvento dei mezzi moderni le donne compivano il vecchio rito del lavaggio nell’acqua corrente. Una sorta di lavacro che avrebbe preservato la famiglia da ogni impurità. Mentre Rosaria era intenta a insaponare le lenzuola, la piccola passeggiava sul greto. Di colpo vide l’acqua tingersi di rosso e non riuscì per la troppa curiosità a non immergere la mano. Subito fu risucchiata dalla corrente che la fece cadere in un mulinello. La fortuna volle che di lì passasse uno dei più capaci pescatori della zona, Gerardo, che dopo una corsa tra le grosse pietre del fiume, raggiunse la piccola e aiutato da un retino riuscì a salvarla. Rosaria rivide la figlia tra le braccia del forte uomo, noto per via della sua stazza e dei suoi baffi con il nomignolo di Obelix.

Da quel giorno Anna cambiò atteggiamento verso la vita, la bimba giocosa e solare si perse dietro lo sguardo tetro di una donna cresciuta troppo in fretta. Il padre continuò a stravedere per lei e non credette mai all’acqua tinta di rosso. Il coraggioso pescatore che aveva assistito a quella specie di incantesimo rassicurò la bimba dicendole che quel colore era frutto della sua immaginazione.

La giovane nel frattempo sviluppò un amore smodato per la lettura e cominciò a divorare libri di ogni sorta. I compagni la chiamavano la medusa per via di quei lunghi capelli ricci e quegli occhi grandi che quando aggrottava le ciglia incutevano timore. Piaceva tanto ai ragazzi, bella in carne, formosa e col naso a punta come quelle streghe di cui la tradizione popolare racconta. Un fascino tenebroso.

Al paese la conoscevano tutti, la trovavano molto intelligente ma avevano un certo timore ad avvicinarla più di tanto. La madre preoccupata si recò da una vecchia fattucchiera che non tardò a darle il responso: “Non sarebbe mai stata madre e non sarebbe mai stata capace di amare”.

Una profezia terribile che Anna cominciò a intuire quando su insistenza del padre aveva iniziato a frequentare un ragazzo di buona famiglia, un certo Giovanni dall’Olio. Il giovane, sentiva qualcosa di strano in lei, tanto che quando la fidanzatina partì per Bologna a studiare trovò la scusa di troncare il rapporto.
Altri incontri ci furono ma solo relazioni di poco conto, amori studenteschi che durano da Natale a Santo Stefano. Dopo 7 anni, finalmente avvertì qualcosa di bello, di compiuto. Durante la stesura della tesi, la quasi filosofa conobbe Cosimo, cronista di nera per il quotidiano locale Il Resto del Carlino. All’inizio il cuore di Anna esplode di gioia, poi arriva puntuale la consapevolezza dell’illusione. Lui esuberante, con quelle fisse sulla religione, la domenica a messa, il segno di croce prima dei pasti e poi la maledetta Quaresima. Lui che si astiene dai piaceri della carne e non beve nemmeno caffè dopo che durante tutto l’anno ha bevuto un Mar Caspio di alcol.

Lei che faceva scalpore al paesello per il suo essere anticlericale. In una parola non lo sopportava più. Aveva la nausea fin sopra i capelli. Dal canto suo Cosimo, codardo come tutti gli uomini, si accontentava, “una donna vale l’altra”.

Ormai stanca di tutto, aveva bisogno di tornare alla tranquillità della sua terra. Tanto più che ultimamente la perseguitava il ricordo del bagno nel fiume rosso. Sentiva di dovere tornare alla fonte di quel maledetto sortilegio. Di notte poi non faceva altro che sognare un uomo in divisa, mutilato. Con l’unico braccio rimastogli attaccato a un corpo crivellato di proiettili le faceva segno di seguirlo nell’abisso del fiume. La povera donna si svegliava straziata. Non ne poteva più. L’unico modo di bloccare l’incubo sarebbe stato quello di tornare in riva al Sangro il 27 ottobre.

Così fece. La giornata era mite, un sole alto faceva brillare la flora accanto al greto. Si sedette aspettando di vedere cosa sarebbe successo. Nemmeno due minuti e il fiume tornò a colorarsi. Proprio come 23 anni fa immerse la mano. L’acqua sembrava leggera, Anna, stanca del mondo si lasciò scivolare. Questa volta nessuno accorse a salvarla. Venne ritrovata la mattina successiva nei pressi della vecchia centrale elettrica.
Le cattive notizie non tardano ad arrivare. Il cellulare di Cosimo squillò. Era il caporedattore che gli diceva di occuparsi di un caso di morte accidentale avvenuto in Abruzzo. Anche il Carlino avrebbe dedicato un’apertura a quella giovane studiosa laureatasi con pieni voti nella prestigiosa università felsinea, già curatrice del festival filosofico in piazza Maggiore.

Cosimo scoppiò in lacrime, chiuse il telefono e corse a casa. Nel cassetto della scrivania aveva conservato la prima lettera che Anna gli aveva scritto. Solo quella. Di solito infatti i ricordi legati a storie di donne li faceva scomparire, diceva che gli mettevano tristezza. Quella missiva no. Si trattava a sua detta di pura letteratura. Prese il foglio e senza mai smettere di piangere lesse e rilesse quelle parole.

Quella sera non avevo nemmeno voglia di uscire. Solo la curiosità per la mostra a Palazzo Fava mi aveva dato la spinta decisiva per abbandonare libri e scrivania. In effetti molto spesso dimentico che, oltre le quattro mura di casa mia, fuori c’è un mondo che nel bene e nel male ha sempre qualcosa da offrire, soprattutto alle menti che si perdono troppo e, aggiungo, purtroppo tra le righe del tempo che fu. Credo che la filosofia abbia sempre rappresentato un dramma per me e che io non abbia mai trovato la giusta chiave per aprirle l’uscio della vita. Non so, l’ho sempre confinata alle riflessioni sulla vita, a volte l’ho trovata inadatta a carpirne il segreto, altre ho pensato che fosse davvero un’elucubrazione inutile che, anzi, svuota il vivere della magia che esso può racchiudere, come fosse una sterile descrizione di un modo di sentire quasi calato dall’alto e, dunque, vuoto, privo di qualsiasi emozione potenzialmente racchiusa tra le pieghe del quotidiano, anche la più banale. Non credo che per me sia valida la tua affermazione dell’altra sera (quella sera!!) e cioè che “la filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale si rimane tale e quale”, io credo che mi abbia rovinato invece, sono molto autoironica in questo, ma non scherzo molto in fondo quando dico che, forse, non “pensare” rende tutto più semplice.

E lo dico perché, vedi, anche ora vado contro il mio intento iniziale di scriverti una semplice lettera e mi abbandono a spiegazioni inutili circa il mio sentire attuale verso la filosofia… cosa di cui, mi rendo conto, può anche (e giustamente!) non importarti nulla… infatti la smetterò subito.
Quella sera… dunque… non volevo neanche uscire… la mostra… e la Public House. Circostanza più che fortuita, io ed Amalia che chiacchieriamo allegramente e anche un po’ animatamente fino a che due calabresi non decidono che il nostro tavolo deve essere condiviso, imposizioni fastidiose, tra l’altro a me urta moltissimo l’approccio idiota da quarantenni sfigati…”ma sia – mi dico – ormai ci sono… e sfoggiare una risatina in più non è poi la fine del mondo!”…cinica, come sempre sono stata e come sempre sarò, credo che la finzione sia all’ordine del giorno di tutti e do sfoggio delle mie più grandi qualità proprio in questo momento, trattenendo certo la vena femminile dell’oca giuliva, ma non risparmiando ai presenti finto interesse e brindisi pseudo-allegri….che noia mortale… …fino a che… tu… venuto da non so dove e non so come… i tuoi occhi su di me e i tuoi baci sul mio viso dopo pochi minuti… mi sento travolta… io, ti giuro, odio gli sconosciuti che mi toccano!! Eppure a te lo permetto…perché???? Ancora non lo so. Risate…sguardi…il numero di telefono…il tuo messaggino della buonanotte… e quello del giorno dopo… l’aperitivo… Tu sei sempre lì accanto a me, ogni tanto mi accarezzi, ti sento vicino eppure distante, c’è qualcosa in te che ti rende lontano, sono mie paranoie? Aspetto, ma anche a casa tua, mentre parliamo seduti vicini, tra noi come un muro si frappone e non c’è molto da fare, le sensazioni in queste circostanze contano più di qualsiasi altra cosa. Però sto così bene e spero che questo valga anche per te. Giunta l’ora di andar via su quella maledetta bicicletta da slegare il tuo bacio sulla guancia tradisce ogni mia aspettativa, vorrei in realtà tornare indietro, entrare e baciarti io, ma sono una maledetta timida codarda e scappo via di corsa, le mie gambe volano sui pedali della bicicletta verso casa e appena ne varco la soglia sono investita da mille più che ovvi pensieri… lo rivedrò? come sto? cosa succederà?
Ora sono qui a casa, ti aspetto, i baci di ieri hanno confermato la magia del nostro incontro, almeno per me.
Io non so e non voglio nemmeno sapere cosa significhi innamorarsi di una persona, perciò mi tengo stretta solo questa sensazione di completo abbandono che per quanto per me sia davvero insolita mi fa sentire almeno viva… e domani chissà…

Anna

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