La deputata (Pd) dell’Antimafia finanziata da imprese sequestrate dalla Dia

Finanziata da società riconducibili a un usuraio e successivamente sequestrate dalla Direzione investigativa antimafia. Enza Bruno Bossio, deputata del Partito democratico e componente della commissione parlamentare Antimafia, è finita nell’occhio del ciclone quasi per caso.

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Pochi giorni fa, nel difendere Nicola Adamo, ex vicepresidente della Regione Calabria nonché suo marito, indagato nella «rimborsopoli» calabrese e destinatario di un’ordinanza di divieto di dimora, sul suo profilo Facebook scrive che «i finanziamenti all’attività politica» di Adamo «sono pubblici e rendicontati» e «la mia dichiarazione dei redditi è sul sito della Camera dei deputati».

Proprio spulciando i dati della Bruno Bossio, alla voce «rendiconto dei contributi e servizi ricevuti e delle spese elettorali sostenute dal candidato», riferiti alle elezioni politiche del 2013, emergono i nomi «incriminati». Dei 20mila e 500 euro totali ottenuti dalla deputata, 2.500 provengono, infatti, dalla società Riace Srl, e altri 2.500 dal Centro clinico San Vitaliano Srl. Due imprese sequestrate un anno fa dalla Dia di Catanzaro. La prima nel gennaio 2014, quando gli investigatori, allora guidati dal direttore Arturo De Felice, sequestrano beni per 100 milioni di euro, fra cui la Riace Srl, nella disponibilità (ma di proprietà dei figli) di un imprenditore molto noto in Calabria, Pietro Citrigno, descritto dall’allora vice capo sezione della Dia di Catanzaro, Michele Conte, come «un imprenditore di un certo spessore con interessi in settori che vanno dall’edilizia, alla sanità all’editoria».

Secondo Conte, dai loro accertamenti «che si fermano ai patrimoni del 2005, è emersa una sproporzione tra i redditi dichiarati ed i beni realmente in possesso». Il capo sezione, Antonio Turi, fa invece notare che «il provvedimento emesso dal tribunale di Cosenza parte dal tratteggiare la figura di Citrigno relativamente alla sua pericolosità sociale». Due mesi dopo gli stessi investigatori mettono le mani sull’intero capitale sociale della clinica San Vitaliano, per un valore di circa 500mila euro. Anche in questo caso la struttura appartiene ai figli ma per gli inquirenti è nella disponibilità dell’imprenditore cosentino.

La Dia, al momento del sequestro, spiega anche che la «pericolosità sociale» di Citrigno «emerge dall’inchiesta Twister che lo ha portato ad una condanna definitiva per usura». L’imprenditore, infatti, nel 2011 era già stato processato per quel reato, subendo una condanna in Cassazione a quattro anni e otto mesi di reclusione. Quando nel luglio 2014 la Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Cosenza confisca la clinica San Vitaliano, nel provvedimento il giudice, dopo aver premesso che la pericolosità sociale di Citrigno e l’illegittima provenienza dei suoi beni sono racchiudibili nel periodo di tempo che va dal 2005 al 2010, e non oltre, parla di «contiguità (e non già intraneità) del medesimo ad alcuni esponenti di spicco delle consorterie criminose operanti nel cosentino». Conclusioni su cui obiettano i legali dell’imprenditore, che replicano prima evidenziando come il Tribunale di Cosenza abbia «omesso di valutare i punti essenziali svolti nelle memorie difensive», poi spiegando che la confisca «arriva dopo che il Tribunale ha riconosciuto che il Citrigno non è socialmente pericoloso, quindi assolutamente lontano da associazioni criminali», e infine evidenziando che «la confisca riguarda anche beni non più di proprietà del Citrigno da oltre 30 anni».

Della vicenda si interessano i componenti del M5S presenti in commissione Antimafia, che insieme ai parlamentari grillini calabresi, inviano una lettera al capogruppo del Pd alla Camera, Ettore Rosato, e al presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi, per chiedere che «Enza Bruno Bossio esca dalla commissione» e per sottolineare che ci si trova in presenza di «fatti che richiedono un’azione decisa da parte dei vertici Pd». Gli stessi pentastellati chiedono anche alla Bruno Bossio di lasciare «spontaneamente la Commissione».

Sentita dal Tempo, Bruno Bossio minaccia querela e afferma: «Le due società sono state sequestrate ma non per mafia, e non sono di proprietà di Citrigno, che comunque dalle accuse di mafia è stato assolto, ma dei figli, e secondo gli inquirenti sono anche nelle sue facoltà. Quando ho ottenuto i finanziamenti, nel 2013, non erano sotto sequestro. E quindi perché i figli, che hanno aziende regolarmente riconosciute, non possono fare delle sottoscrizioni in assoluta trasparenza? Qual è il problema? La responsabilità penale è individuale». La stessa deputata, subito dopo la lettera del M5S alla Bindi, aveva replicato con fermezza: «Se pensano di zittirmi non ci riusciranno, mi batterò in ogni sede perché si ristabilisca ogni verità a favore della democrazia, della trasparenza e per tutelare la funzione istituzionale da evidenti minacce e ricatti». Il tempo di leggere la missiva dei grillini, e anche Rosi Bindi prende posizione: «La presidenza della commissione Antimafia non ha alcun potere in merito alla composizione della Commissione, che compete ai presidenti delle Camere e non può adottare alcun provvedimento riguardo al caso in esame. Rilevo che la vicenda non appare configurare alcune delle condizioni previste dal Codice di autoregolamentazione approvato nella scorsa legislatura».

Luca Rocca   per IL TEMPO

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