La Cina è in Italia: la vendita della Pirelli ai cinesi rappresenta il declino del Paese

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di Andrea Angelini

La Cina è vicina anzi è entrata in forze in Italia. I mongoli (mah insomma), al contrario dei cosacchi non faranno abbeverare i cavalli in Piazza San Pietro, ma si accontenteranno di comprarsi pezzi e bocconi del nostro Paese.

Se i fondi di investimento del Qatar, anche loro senza portare i cammelli in Piazza del Duomo, hanno già comprato i grattacieli di Milano, perché stupirsi se ChemChina diventerà a breve la padrona della Pirelli? Al di là delle scontate e ritrite battute all’insegna della zoologia, è indubbio che la vendita della Pirelli ai cinesi rappresenta una tappa “storica” nel declino del nostro Paese. Un declino che è sia economico che politico.

Un declino avviato nei primi anni novanta con l’apertura dell’Italia alle logiche del Libero Mercato che ebbero da noi una applicazione scellerata ed estensiva. Si partì con il cambiare la Legge Bancaria del 1936 che (giustamente) proibiva la commistione tra raccolta e credito a breve termine con quelli a lungo termine. Lo scellerato “modello tedesco” che tanti disastri aveva creato nel primo dopoguerra con l’Ansaldo dei Perrone e la Fiat degli Agnelli tutte occupate nel tentativo di scalare in Borsa rispettivamente la Banca Commerciale e il Credito Italiano, banche con le quali erano fortemente indebitate.

Dopo Mani Pulite e dopo la Crociera del Britannia (2 giugno 1992) e dopo la speculazione in autunni contro la lira partita dalla City londinese, venne avviato il processo di privatizzazione delle imprese pubbliche e lo smantellamento di un colosso come l’Iri che, pur con tutte le riserve sul suo operato e su una gestione troppo spesso clientelare, aveva contribuito in maniera determinante al boom economico italiano e all’avvento dell’Italia come potenza industriale. Oggi, un gruppo come l’Eni, che assicurava al nostro Paese, sule orme di Mattei, di avere ampi spazi di manovra per una politica estera autonoma, non è più una società italiana. I soci stranieri sono infatti in maggioranza e il Tesoro e la Cassa Depositi e Prestiti sono pronti a vendere (per fare cassa) le quote azionarie residue.

La siderurgia italiana pubblica (quella dell’Iri, quella dei centri siderurgici) o non esiste più o si dibatte in una crisi senza fine (vedi l’Ilva di Taranto). Il tutto dopo aver accettato le imposizioni della Commissione Europea che ci aveva chiesto di ridurre la capacità produttiva. La cantieristica italiana non è che una pallida imitazione di quella che fu negli anni sessanta. Certo, facciamo ancora navi da crociera, ma per il resto? Con lo smantellamento del soggetto pubblico (il Libero Mercato non vuole lo Stato imprenditore ma in certi casi si lascia correre), è venuto meno il ruolo trainante che esercitava. Era una impostazione “keynesiana” di politica economica che comportava un effetto moltiplicatore per le aziende private, che ne traevano occasione di lavoro. In tal modo si dava lavoro anche in realtà (come il Sud) dove le difficoltà di fondo (in primis le varie Mafie) sconsigliavano (e continuano oggi a sconsigliare) di investire capitali.

Il boom economico italiano, il decennio 1955-1964, fu determinato dalla convergenza dell’opera delle grandi imprese pubbliche e da quella delle medie e piccole imprese private. Gruppi come la Fiat e Pirelli si svilupparono enormemente traendo beneficio dal desiderio degli italiani di tirarsi fuori da una povertà antica e testimoniarlo attraverso l’acquisto di un automobile. La Fiat, in particolare, si avvantaggiò di un mercato chiuso, con barriere all’entrata e contingentamenti delle importazioni, dove l’unico altro concorrente era l’Alfa Romeo (dell’Iri). In più, con la protezione di Mediobanca, banca a capitale pubblico ma lasciata operare ad esclusivo servizio delle grandi aziende private del Nord, Pirelli e Fiat non ebbero difficoltà nell’ottenere finanziamenti agevolati dalle banche, quelli a fondo perduto dalo Stato, più cassa integrazione a piacere quando gli affari andavano male. Storie vecchie e conosciute. Un sistema protetto che fece passare l’idea nella mente degli azionisti di comando e dei dirigenti che la cuccagna sarebbe durata in eterno.

Ma non è andata così perché il Libero Mercato ti obbliga a misurarti con il prodotto che sai realizzare, con la sua qualità e con i costi sostenuti. E la finanza diventa un optional. Pirelli e Fiat si erano abituate troppo bene. Facevano più finanza che industria. Lo dimostra la maniera ignobile con la quale Pirelli e Benetton hanno gestito Telecom, pensando soltanto a saccheggiarla. Che oggi Pirelli passi di mano, è quindi non solo il risultato del maggior peso industriale e finanziario di ChinaChem ma anche dell’incapacità dei gruppi industriali “storici” italiani a muoversi sul mercato.

I cinesi hanno fame e voglia di crescere, gli italiani no. Lì sta la differenza. Che poi molte aziende cinese, la quasi totalità, prosperano grazie a ritmi di lavoro estenuanti e a salari miserevoli, è un aspetto della modernità che va messo in preventivo. Il Jobs Act (sic) di Renzi va infatti in quella direzione.

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